Tra progetti, compiti di realtà e docenti mediatori, la scuola è diventata palestra dell’intrattenimento: lettera di una professoressa ai suoi studenti

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Insieme all’Associazione ToKalon pubblichiamo questa lettera firmata scritta da una docente il giorno prima di ricominciare in classe con i suoi allievi

Cara Scuola,

non serve andare a cercare nei diari di nonni e bisnonni, basta chiedere ai nostri genitori di raccontarcelo: un tempo, non tanto tempo fa, eri una grande e rispettata istituzione e l’insegnante era una delle persone più stimate e autorevoli. Nessuno avrebbe mai sognato di mettere bocca su quello che diceva. Mi ricordo, ad esempio, che trent’anni fa mio fratello frequentava la prima elementare e aveva un maestro apprezzato da tutti nel nostro paese di provincia. Un giorno tornò a casa con un quaderno di italiano su cui aveva fatto un compito. Mio fratello aveva scritto nel pensierino (che oggi si chiamerebbe testo): “Ieri sono andato al cinema con la mia famiglia a vedere Gli Aristogatti”. Il maestro aveva corretto così la frase: “Ieri sono andato al cinema con la mia famiglia a vedere Gli L’Aristogatti”. Mia madre, cara Scuola, è una persona con due lauree, mio padre scrive libri che nessuno legge, ma insomma, lui scrive. E nessuno dei due ha osato inveire contro l’errore del maestro, nessuno ha detto una parola, nessuno ha messo in discussione davanti a mio fratello, allora seienne, la figura del suo maestro. Avevano ben chiaro quanto fosse più importante non pregiudicare il rapporto insegnante-alunno, che sottolineare un errore dovuto forse a una svista.

Cara Scuola, un tempo eri tu che permettevi al figlio dell’ingegnere e del primario e al figlio del muratore e del netturbino di imparare le stesse cose, perché né l’ingegnere, né il primario, né il muratore, né il netturbino si sentivano in diritto di mettere bocca su quello che davi ai loro figli. Grazie a te, Scuola, un tempo i bambini avevano le stesse opportunità.

Poi è successo qualcosa. A un certo punto hanno cominciato a esserci persone che si sentivano in diritto di dire che gli insegnanti sono dei privilegiati: “Tre mesi di ferie l’anno, Natale e Pasqua a casa, mezza giornata a scuola, insomma, non fanno niente”. È un luogo comune? Io, da quando insegno, me lo sento dire di continuo. Però non mi offendo, perché so quanto e come lavoro, so quanto durano 4 o 5 ore in classe al giorno, con 20-25 alunni (bambini nel mio caso), la carica di adrenalina, il livello di attenzione che richiede, e l’impossibilità di staccare anche solo per un attimo, nemmeno mentre si prende il caffè dal thermos che ti devi portare da casa, perché mica puoi dire “ora faccio 10 minuti di pausa e vado al bar”.

Ma evidentemente dopo un po’ che ci si sente sminuire, si comincia a cercare un modo per difendersi. Ci deve essere stato un momento, lo chiedo a te, cara Scuola, forse ti ricordi quando è successo, un momento in cui hai pensato di dover cominciare a cambiare, a trovare il modo per rispondere a queste illazioni, che si stavano facendo pesanti.

A un certo punto, forse quando l’accesso al sapere è diventato più immediato, quando tutti, anche i cartoni animati, si sono messi a insegnare qualcosa, a un certo punto il fatto che tu, Scuola, insegnassi a leggere, scrivere e far di conto, ma soprattutto a ragionare, sono sembrate cose banali, scontate, che potevano essere imparate dappertutto.

Forse hai iniziato a pensarlo anche tu stessa, cara Scuola, forse ti sei fatta ingannare da questa opinione comune, forse hai perso fiducia in te stessa.

E allora come hai pensato di reagire? Hai pensato, e temo che l’errore sia proprio qui, che avresti dovuto far vedere che cosa facevi, hai pensato di dover dare ragione del tuo stesso esserci. Ma è difficile mostrare al mondo che insegni a pensare, a ragionare, soprattutto a un mondo che vive di prodotti, un mondo di commercio, un mondo di gratificazioni immediate, di tutto e subito, il mondo del WIFI…

“Chi semina datteri non raccoglie datteri”, dice il proverbio, e se c’è qualcuno che semina datteri sei proprio tu, Scuola.

Ma c’è stato un momento in cui si è preteso di vedere subito i tuoi datteri, subito i risultati del tuo lavoro, e allora, forse per stanchezza, forse per paura, forse per disillusione, hai deciso di puntare su datteri geneticamente modificati, datteri che potevano essere raccolti subito.

Allora, visto che questi datteri si dovevano vedere, hai iniziato ad affiancare al tuo solito lavoro anche delle attività che avessero visibilità, che confezionassero prodotti facilmente pubblicizzabili, cose concrete, che la società potesse vedere e toccare, e a un certo punto ti sei ingannata da sola, e hai iniziato anche tu a credere che quanti più di questi datteri avessi prodotto, più alto sarebbe stato il tuo valore.

Parallelamente, forse, questa nuova modalità di insegnare ha concesso una boccata d’aria ai tuoi insegnanti, che per anni avevano fatto le stesse cose, dando loro la parvenza di poter introdurre nella loro vita lavorativa nuovi stimoli e attività più interessanti, più gratificanti.

Hai iniziato a vivere di progetti, di mostre, di feste di fine d’anno, di lavori e lavoretti, ti sei riempita di esperti e di tecnologie, hai partecipato a bandi, hai rivoluzionato l’orario e il modo di insegnare, pur di far comprendere al mondo che anche tu lavoravi, pur di zittire chi ti diceva che non facevi niente, e che “a insegnare a leggere e scrivere so’ boni tutti” (come si dice a Roma).

Ti sei piegata a chi ti diceva che non serve più insegnare contenuti, perché tutti hanno lo smartphone in mano e se non sai in che regione italiana si trova Ferrara basta chiedere al dio Google, e se non sai la tabellina del sette c’è l’app della calcolatrice, e se non studi le poesie a memoria non fa niente, perché hai a portata di touch agende e promemoria… e hai iniziato a puntare sui cosiddetti compiti di realtà, che dovevano insegnare ai tuoi studenti a fare qualcosa, e che promettevano un prodotto finale. Senza combattere per rimarcare che il bambino, o l’uomo, saprà di aver imparato a ragionare e a usare le conoscenze che gli hai dato solo quando si troverà fuori da te, e davanti a un problema nuovo, una situazione imprevista, un’esperienza non riconducibile ai tuoi compiti. Hai forse anche dimenticato che se tu non sarai lì a vedere i tuoi studenti raccogliere i tuoi datteri, e anche se nessuno mai ti ringrazierà per averli seminati, saranno proprio questi che li sfameranno per tutto il loro avvenire.

Mi sembra, cara Scuola, che tu ti sia pian piano convertita in una palestra di intrattenimento, complice anche una nuova linea pedagogica che ha stabilito che il bambino non deve annoiarsi mai, e che bisogna andare incontro solo ai suoi interessi, mi sembra che il nuovo vangelo del “Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco” abbia portato a tanto saper fare, ma a poco sapere e a poco essere.

In quest’ottica, cara Scuola, la mia opinione (e purtroppo so di non essere la sola a pensarlo, anche se onestamente spero di sbagliarmi) è che tu non sia più così democratica come lo eri un tempo, la mia opinione è che, mentre li intrattieni, il figlio dell’ingegnere e del primario impareranno altrove quello che tu non insegni più loro, mentre chi non avrà la possibilità di imparare altrove, non imparerà proprio.

Oggi sei in crisi, cara Scuola. Sei in crisi perché il Coronavirus e tutto quello che ne è conseguito ti stanno imponendo una modalità di lavoro che non è quella a cui ultimamente sei stata abituata: banchi singoli, studenti a distanza di sicurezza, fiumi di gel igienizzante, niente lavoro di gruppo, mascherine che coprono sorrisi e sbadigli, nessuna condivisione. Nessun esperto potrà entrare in classe, nessun cartellone si potrà appendere alle pareti, nessun compito di realtà si potrà fare, nessun progetto, nessuna gita, niente di niente. Ma sei proprio sicura che non rimanga niente? Ci sono gli studenti, tutti diversi tra loro ma tutti con lo stesso identico diritto di imparare, con la stessa curiosità, con la stessa voglia di diventare grandi. Ci sono gli insegnanti appassionati del loro lavoro, convinti che “gli studenti non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere”.

Cara scuola, la relazione educativa che vive al tuo interno è speranza per il futuro. Domani sarai invasa di allievi su di giri ed emozionati, che non vedono l’ora di cominciare o di tornare da te dopo un’assenza durata sei mesi.

Abbi fiducia in te, Scuola, ritrova la tua autorevolezza, recupera il tuo vero ruolo, pensa a cosa stai seminando!

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