Docenti neoassunti nel 2020, fermi per cinque anni: per la CUB pegno inaccettabile da pagare

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Giovanna Lo Presti portavoce Cub Scuola – Mentre l’attenzione mediatica è tutta concentrata sullo stucchevole dibattito scuole aperte/scuole chiuse, che sembra prescindere dal fatto che una riapertura ci sia stata, ma all’insegna dell’insicurezza e che proprio il nodo della sicurezza sia quello da sciogliere con urgenza assoluta, se vogliamo aprire le scuole, vogliamo spostare l’attenzione sulle difficoltà che i lavoratori della scuola si troveranno ad affrontare quando l’epidemia si spegnerà.

Consideriamo il blocco quinquennale imposto ai neo-immessi in ruolo in base ad una disposizione prevista nel Decreto Legge n.126 del 29 ottobre 2019 e poi nella Legge di conversione n.159 del 20 dicembre 2019, all’ art.1 comma 17-octies. Di questo problema, che discrimina gli immessi in ruolo quest’anno rispetto ai colleghi degli anni precedenti, si è già parlato ma, a quanto pare, nessuno, nella compagine legislativa, cerca di trovare una soluzione. Come tante altre norme assurde, anche questa nasce da una ratio di primo acchito condivisibile: la tutela della continuità didattica. Si vorrebbe insomma, attraverso tale imposizione, evitare che i neo-assunti lascino sguarnite (perché scomode o lontane dalla loro residenza) le sedi su cui erano stati nominati, creando così problemi organizzativi. E visto che il “moto migratorio” dei docenti va da Nord a Sud, comprendiamo bene che, alla radice, ci sia la partecipazione degli aspiranti docenti in Regioni con il rapporto più favorevole tra posti disponibili e candidati.

Ora, se i neo-assunti fossero anche neo-laureati, il pur sgradevole blocco quinquennale avrebbe una portata meno dannosa. Facciamo riferimento ad un documento INDIRE relativo all’anno scolastico 2018-2019 e supponiamo che quest’anno i dati non siano così diversi: allora il 22% dei neoassunti aveva tra i 25 e i 34 anni, il 49% tra i 35 e i 44, il 29% tra i 45 e i 54, l’8% tra i 55 e i 64. I dati parlano da soli, tanto più se si aggiunge che l’82% dei docenti considerati era donna.

In un Paese civile chi fa le leggi si dovrebbe preoccupare dell’impatto concreto che queste avranno sulla vita dei cittadini: obbligare tante persone, in gran parte con una famiglia alle spalle a scegliere una sede scomoda e vincolarle a quella scelta per cinque anni non crediamo abbia alcun effetto positivo sulla serenità del lavoro di questi docenti. Inoltre, stipendi vergognosamente bassi costringeranno molti ad una vita di ristrettezze: in una grande città del Nord il solo affitto di un appartamento rischia di portar via quasi metà stipendio. Se a queste indubbie difficoltà economiche aggiungiamo le preoccupazioni per la famiglia lontana, possiamo già immaginare come andrà a finire: alcuni rinunceranno al lavoro (è già successo ed il flop delle call veloci ne è testimonianza) , altri cercheranno di arrangiarsi, visto che le uniche eccezioni all’essere imbullonati alla cattedra per cinque anni sono costituite dalla sovrannumerarietà (quando è il sistema che crea mobilità, si vede che la continuità didattica non conta!) e dall’usufruire della Legge 104, cosa che già hanno fatto molti docenti del Sud nominati al Nord, vista la loro età media e, visto che spesso la 104 riguarda i genitori, la presumibile alta età dei genitori. Poi ci sarà il coro di lai per il Sud che abusa della Legge 104, ma sarà un coro stonato perché – per pochi che ne approfitteranno – tantissimi non sapranno come accudire altrimenti alla propria famiglia. Di questa incresciosa situazione approfittano adesso i “sindacalisti per via legale”, il cui demerito è quello di trasferire sui ricorsi la giusta protesta dei lavoratori. È facilmente prevedibile, perciò, un’altra valanga di ricorsi.

Ecco le conseguenze di un provvedimento non necessario e nato, come tanti altri, dall’anteporre (non si sa se ingenuamente o furbescamente) i diritti dell’utenza a quelli dei lavoratori. Un’altra opposizione falsa e bugiarda, frutto di una visione semplicista della scuola e della società. Si vogliono obbligare i docenti a permanere in una sede scomoda? Si dia loro un sussidio congruo che garantisca una vita dignitosa fuori dalla propria famiglia. Non ci sarebbe nulla di strano, poiché molti lavoratori privati fuori sede percepiscono un indennizzo economico. Non si può scegliere questa via perché esosa? Allora si creino posti di lavoro nelle scuole, laddove servono, in particolare al Centro-Sud, isole comprese. La scuola dovrebbe essere un presidio di civiltà; incrementare le scuole del Sud, garantendo anche organici generosi, che, per esempio, garantiscano il funzionamento pomeridiano delle scuole e che siano di supporto reale agli studenti di ogni fascia d’età, potrebbe essere un primo passo verso l’uscita da quella crisi educativa che certo non ha creato la pandemia.

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