Professione maestra sempre più sotto attacco

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Educare bambini e ragazzi è sempre stato difficile, soprattutto quando si è chiamati a correggere i loro comportamenti sbagliati. All’ inizio del XX secolo, nella famiglia patriarcale, ai genitori era ampiamente concesso ricorrere alle maniere forti come anche all’insegnante bacchettare o tirare le orecchie agli alunni più riottosi.

Tuttavia, col tempo, il ricorso alla violenza fisica è stato gradualmente prescritto, consentendo dapprima l’uso di una vis modica nelle punizioni, divenuta poi negli anni vis modicissima, fino a farlo scomparire del tutto. Si è trattato indiscutibilmente di una conquista di civiltà che però presenta qualche inconveniente. Detti inconvenienti emergono chiaramente se consideriamo i numerosi casi di “Presunti Maltrattamenti a Scuola” (PMS) che costellano le recenti cronache. Infatti inquirenti e giudici individuano facilmente gli atti correttivi illeciti (sberle, scappellotti, schiaffi, percosse, isolamenti, segregazioni…), ma non riconoscono altrettanto intuitivamente quali sono i metodi correttivi leciti cui gli insegnanti possono fare ricorso per educare i piccoli alunni. Anche la suprema Corte di Cassazione non è stata in grado di specificare puntualmente che cosa costituisce mezzo lecito di correzione. Ha infatti parlato di liceità «dei tradizionali mezzi di correzione» (Sez. VI, 16 febbraio 1983, Mancuso, in Cass. pen., 1984, p. 508, n. 362), senza però precisare quali essi siano ed ha optato per la definizione casistica, elencando una serie di strumenti disciplinari definiti illeciti per loro natura o per potenzialità di danno (frustate, punizioni umilianti e degradanti, colpi inferti con una cinghia di cuoio)… (Sez. V, 9 maggio 1986, Giorgini, in Cass. pen. 1987, p. 1095, n. 855). Oggi è comunque da ritenersi bandito l’utilizzo, a fini educativi, di qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica. Resta tuttavia da enunciare puntualmente quali siano i mezzi di correzione o di disciplina, evidentemente leciti, cui fa riferimento l’articolo 571 c.p. Le pronunce di legittimità degli ultimi anni riguardano infatti, quasi esclusivamente, casi in cui i mezzi utilizzati sono stati ritenuti non leciti. In parole povere, i nostri insegnanti dispongono della “lista nera” ma non della “lista bianca”, fatto che lascia loro un’alea d’incertezza o discrezionalità riguardo all’esercizio della professione.

Come dimostrazione pratica di quanto appena asserito si consideri il caso di cronaca occorso di recente in cui un bimbo di 4 anni, oltremodo vivace, veniva ritenuto punibile dalle sue maestre rinviando, unico nella sua classe, la consegna del regalo natalizio a gennaio. Il bimbo deluso ha pianto sconsolato nonostante l’atto correttivo avesse il solo scopo di sedare l’impeto del pargolo dandogli un segnale forte. La madre del piccolo non ha preso bene la cosa e ha denunciato il fatto ai media e al dirigente scolastico. Le maestre, sotto la pressione massmediatica, sono così state indotte a presentare le loro scuse e a tornare sui loro passi. Non conosciamo bene i termini della vicenda ma nemmeno abbiamo la certezza che il metodo correttivo adottato dalle maestre sia giusto o sbagliato e soprattutto adeguato alla situazione. Sarebbe infatti un errore considerare sempre ed esclusivamente il pianto di un bambino come unico discrimine per etichettare come angheria un’azione correttiva. Questa reazione (il pianto), peraltro assai frequente nella vita di un piccolo in età prescolare, produce nell’adulto (genitore o inquirente che sia) un vissuto di sofferenza e di dolore, mentre la maestra che ogni giorno frequenta dai 20 ai 30 bambini contemporaneamente lo inquadra in una fisiologica dinamica educativa. Il pianto, inoltre, rappresenta spesso uno strumento manipolativo del bambino che tenta di muovere a compassione l’adulto perché questi gli consenta di reiterare il proprio comportamento inadeguato. Negli anni il bambino acquisirà la capacità di evitare comportamenti inadeguati ma solo se gli adulti/educatori non cederanno alle sue “manifestazioni di disperazione”.

A rendere ancora più problematico l’esercizio della professione alle maestre è la nessuna considerazione che la giustizia ha della differenza tra ambiente familiare e parafamiliare nei contenziosi penali per PMS. La Cassazione penale (Sent. 7639 16 febbraio 2018) ha solamente sottolineato che il rapporto lavorativo può definirsi di natura parafamiliare quando sono presenti: a) relazioni intense e abituali; b) “consuetudini di vita” che si formano fra soggetti; c) soggezione di una parte nei confronti dell’altra; d) fiducia riposta dal soggetto debole rispetto a colui che assume una posizione di supremazia e da cui dunque si aspetta assistenza. Tuttavia gli stessi inquirenti, i giudici, gli avvocati e i periti ancora oggi non colgono le peculiari differenze tra l’ambito scolastico e quello domestico-familiare che sono numerose e sostanziali come di seguito indicato: 1) rapporto 1:1 (madre-figlio) vs. 1:29 (maestra-alunno); 2) stile educativo unico della madre a casa vs. stili educativi multipli a scuola (29+maestra); 3) ruolo materno nella crescita del bimbo in famiglia vs. ruolo della maestra nel processo di istruzione e socializzazione dell’alunno nella comunità; 4) assenza pressoché totale della presenza maschile in ambito scolastico parafamiliare; 5) abitazione è equiparata a dimora privata mentre la scuola è considerata ambiente pubblico.

Come ultima considerazione desidero esternare la mia sorpresa di fronte alle molteplici reazioni impietose e di condanna che la gran parte delle maestre ha di fronte a episodi o immagini di presunti maltrattamenti che vedono coinvolte colleghe in difficoltà. Mi sono sempre chiesto il perché di così poca empatia e solidarietà e sono giunto a una conclusione individuando almeno quattro fattori che affliggono potenzialmente il giudizio della categoria professionale. Questi sono:

  1. La convinzione (o pia illusione) di essere sempre padroni dei propri impulsi in tutti i momenti e tutte le avversità che si presentano (commettendo l’errore di non considerare il contesto che ovviamente non conoscono);
  2. Ignorare che le immagini contestate sono la selezione del “peggio” dell’attività professionale della collega ma rappresentano lo 0,1% delle intercettazioni totali;
  3. L’infondata certezza che mai saranno avviate indagini nei propri confronti;
  4. La totale ignoranza su come e quanto si riescono a manipolare (cioè decontestualizzare, estrapolare, selezionare, drammatizzare) le intercettazioni per costruire una verità distorta e artificiale.

Chiedere che venga fatta chiarezza in materia è un compito che spetta ora al sindacato che deve uscire da un ostinato e incomprensibile silenzio. Chi esercita una professione così delicata, merita almeno di conoscere quali strumenti possiede per operare in serenità.

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