“In ogni Scuola ci sono buoni e cattivi incontri. I primi aprono mondi, i secondi li sigillano. Anche i secondi sono essenziali”. Intervista a Massimo Recalcati

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Con il Professor Massimo Recalcati,  psicanalista, saggista e professore Universitario, proseguiamo la riflessione sulla scuola cominciata nella precedente intervista

Lei attribuisce alla scuola due anime, quella del dispositivo e quella della luce. Entrambe necessarie per il suo funzionamento. Quali sono le caratteristiche di queste due anime e come si conciliano?

La Scuola-dispositivo è la Scuola delle regole, dei programmi, dei calendari, dei dossier. Non esiste alcuna istituzione senza che vi sia un dispositivo che regoli la vita di chi ne fa parte. Lacan diceva che una istituzione è un freno al godimento individuale. La Scuola-dispositivo rivela l’anima grigia, anche se necessaria, della Scuola. Ma la vita della Scuola non può essere ridotta al funzionamento del suo dispositivo istituzionale. Esiste una seconda anima, la più importante, che è quella della luce. Questa anima si rivela innanzitutto nel corso della lezione. Il compito della lezione non è solo quello di trasmettere informazioni ma di aprire mondi. In questo senso, l’esperienza della Scuola è una esperienza della luce. Non dovremmo mai dimenticare la centralità della lezione nella vita della Scuola. Nondimeno non si può non osservare che la tendenza egemone è invece quella di accentuare la Scuola-dispositivo a discapito della Scuola-luce. Gli insegnanti stessi possono testimoniare il paradosso della marginalità dell’ora di lezione nella loro attività per lo più risucchiata da compiti extra-didattici: programmazione, schede di valutazione, riunioni di ogni genere, ecc.

Kenneth Robinson affermava che la scuola moderna è costruita sulla base di un sistema sociale ormai superato e che la scuola uccide la creatività, il pensiero divergente. Lei racconta un aneddoto dove alle elementari una maestra chiedeva a lei ed ai suoi compagni quale fosse la bellezza del fuoco, imponendo, alla fine, la propria chiave di lettura. Possiamo cambiare?

La Scuola, ogni Scuola del mondo, anche quella peggiore, porta sempre con sé la possibilità dell’evento della luce. In ogni Scuola ci sono buoni e cattivi incontri. Ed entrambi fanno parte del processo di formazione. I primi aprono mondi, i secondi li sigillano. Ma anche i secondi sono essenziali per dare forma alla vita. La Scuola in quanto tale non dovrebbe mai sigillare i mondi. La sua lingua non dovrebbe mai essere una. Una delle funzioni fondamentali della Scuola è rendere possibile il passaggio dal monolinguismo al plurilinguismo. In questo senso non c’è Scuola degna di questo nome che non sia palestra – in senso stretto – della democrazia.

Nella scuola italiana gli insegnanti sono umiliati socialmente ed economicamente, spesso assorbiti più da compiti burocratici che didattici, ingabbiati in pratiche ripetitive che li distolgono dal loro compito primario, educare. In molti criticano le modalità di reclutamento del corpo docente basato più sulla conoscenza della materia che sulle competenze pedagogiche. Come valorizzare il corpo docente?

È il paradosso che le segnalavo prima. Lei pone un problema cruciale della didattica che è quello del rapporto tra educazione e istruzione. Mentre la prima si occupa del piano valoriale, la seconda dovrebbe occuparsi del piano più strettamente tecnico-cognitivo. In realtà questa opposizione andrebbe sfumata, dialettizzata. Se c’è autentica didattica – processo effettivo di istruzione – è già in atto il processo effettivo di educazione. La Scuola non educa attraverso la persuasione morale, attraverso l’inculcamento di dottrine ideologiche, ma solo attraverso la cultura. E la cultura porta già con sé l’educazione alla pluralità, all’apertura, la critica all’intolleranza, l’antifascismo, la democrazia, la fratellanza. Dunque è già attività educativa pienamente in atto.

L’istituzione scuola ha perso la sua solidità, così come la famiglia. Bauman la descrive bene nel concetto di modernità liquida. L’autorità dell’insegnante non è più semplicemente legata al suo ruolo, ma va conquistata volta per volta. Lei afferma che degli insegnanti quello che ricordiamo principalmente è il loro stile più che la materia di insegnamento. Lei parla di erotizzazione del sapere, cosa intende?

È finito il tempo dove l’autorità simbolica dell’insegnante veniva garantita dalla forza della tradizione. Allora c’era una rendita invisibile che l’insegnante incassava passivamente e che lo rendeva autorevole a prescindere dalla forza della sua parola e della sua azione didattica. Dopo la giusta contestazione del ’68 questa rendita si è esaurita. A complicare le cose c’è anche sullo sfondo una crisi generalizzata del discorso educativo che viene messo in ginocchio dall’iperedonismo di quelle che Pasolini definiva come società dei consumi. Ora il problema è come un insegnante possa acquisire autorevolezza simbolica essendo venuta meno la rendita garantita dalla tradizione. Allora io sostengo che questa autorevolezza deve essere riconquistata non attraverso strumenti repressivi o autoritari ma per la via della propria parola, del sapere insegnare con autorevolezza. E quali sono gli insegnanti che sanno insegnare con autorevolezza? Quelli che sanno dare testimonianza incarnata che il loro rapporto col sapere non è privo di desiderio ma è una vera e propria erotica. Solo se l’insegnante sa amare il sapere al quale si dedica può trasformare i suoi allievi in amanti del sapere. È il desiderio dell’insegnante a rendere vivo il sapere erotizzando il suo apprendimento. Questo significa ricostruire l’autorevolezza simbolica dell’insegnante dai piedi.

Lei afferma che il compito primo di ogni maestro non è quello di trasmettere il sapere ma di portare il fuoco che serve ad accendere il desiderio di sapere per costruire se stessi per valorizzare l’unicità di ogni individuo. Bisogna educare al desiderio di sapere, ma come si fa? Come coinvolgere ragazzi sempre più distratti, poco reattivi e assorti nel mondo virtuale dei social?

Esattamente quello che le stavo dicendo. Possiamo concepire la formazione attraverso due paradigmi. Il primo è quello della scala, il secondo quello del fuoco. Il primo paradigma suppone che la formazione sia un avanzamento progressivo, dal basso verso l’alto. Un avanzamento lineare, un gradino dopo l’altro. Il compimento di questo processo consiste nel raggiungimento dell’ultimo gradino. Questo paradigma è ingenuo evidentemente. La formazione non ha mai questa configurazione. Essa non è un processo rettilineo che porta dal gradino più basso al più alto. Piuttosto è fatto di giravolte, andate e ritorni, ha un andamento spiraliforme. Ma soprattutto dipende dagli incontri. Il paradigma del fuoco sottolinea questo aspetto. È la contingenza imprevista dell’incontro ad accendere il fuoco del desiderio di sapere e a modificare la traiettoria del nostro percorso.

Chiudiamo con un’ultima domanda. Alcuni pedagogisti lamentano un eccesso di psicologia nelle scuole con una conseguente medicalizzazione dei comportamenti che non rientrano in determinati standard. Bisognerebbe invece “curare” con l’educazione. Lei cosa ne pensa?

Assolutamente d’accordo. Oggi nelle scuole c’è per lo più un cattivo uso della psicologia che segue la tendenza generale del nostro tempo a medicalizzare la vita. Basterebbe leggere il DSM V – ovvero il manuale di psicopatologia più accreditato dal mondo scientifico – per accorgersi che nessuno di noi potrebbe sfuggire da una diagnosi clinica. Siamo tutti malati mentali! L’uso inflattivo della diagnosi clinica è un grande problema non solo della scuola contemporanea ma del nostro tempo. Se una bambina mostra di avere alcune fobie alimentari, diventa un’anoressica; se un bambino è irrequieto, diventa un iperattivo; se mostra difficoltà in matematica, diventa espressione di una discalculia patologica, eccetera. È un orrore! La psicologia non dovrebbe prestarsi a questa operazione di medicalizzazione e patologizzazione dell’umano. Bisognerebbe sempre ricordare che la formazione non è mai uniformazione, ma coltivazione delle proprie attitudini singolari, della propria anormalità, della bizzarria del proprio desiderio.

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