Mobilità, Giudice riporta a casa docente sottoposto a cicli di cure continuative, anche se patologia non grave

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Il Tribunale di Palermo, con sentenza del 25 febbraio 2021, nel procedimento recante il NRG 8452/2020, ha accolto la tesi difensiva applicata dallo studio legale Fasano di Palermo in favore di una docente, lavoratrice fragile, sottoposta a cicli di cure continuative presso il proprio Comune di residenza.

Il MIUR aveva negato il trasferimento della docente nella propria sede di residenza – Palermo – ove si effettuavano i cicli di cure continuative, mantenendo per la stessa la sede di titolarità di Genova.

In particolare, la difesa del MIUR muoveva dalla circostanza che non essendo la patologia cui era affetta la docente DA QUALIFICARE GRAVE, la stessa avrebbe potuto tranquillamente espletare le cure pure in altri territori dello Stato.

Di tesi opposta la posizione del Giudice del lavoro adito.

Il Giudice del lavoro, infatti, partendo dalla nozione comunitaria di disabilità – sancita dalla giurisprudenza eurounitaria – ha reso una lettura innovativa della normativa, aprendo la tutela anche a tutti i docenti che non presentano patologie, sulla carta, definite appunto gravi.

Ecco uno stralcio del provvedimento: “Osserva, anzitutto, il giudicante che l’espressione “gravi patologie” non può interpretarsi nel senso di terapie che comportino la necessità da parte del docente interessato di un intervento globale permanente, poiché la norma contrattuale espressamente precisa che la precedenza spetta anche ai docenti non affetti da handicap, né grave né lieve. La norma contrattuale dell’art. 13 qui in commento, quindi, ha introdotto un trattamento differenziato per coloro che possano essere definiti disabili ai fini della direttiva eurounitaria e della Convenzione delle Nazioni Unite sopra citate, in attuazione delle stesse, prevedendo che essi non debbano necessariamente coincidere con coloro che sono stati dichiarati affetti da handicap sulla scorta della normativa interna, e identificandoli con i lavoratori che di fatto sono sottoposti a cure continuative per patologie gravi, valutando che essi sono affetti da disabilità in senso eurounitario, cioè da una “limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori”. Sembra, quindi, che il requisito della “gravità” della patologia menzionato dalla norma contrattuale debba essere interpretato non tanto come commisurazione dell’incidenza della patologia in sé sulla salute (si sarebbe a tal fine potuto indicare un grado minimo di invalidità), bensì in relazione ai suoi effetti, di ostacolare la partecipazione della persona alla vita professionale in condizioni di parità con gli altri lavoratori. Ed invero, proprio la circostanza di essere costretto da una limitazione fisica o mentale a sottoporsi a cure un modo continuativo comporta come conseguenza che il lavoratore non può svolgere l’attività lavorativa su base di eguaglianza con gli altri lavoratori, soprattutto laddove sia costretto, o comunque indotto dall’avere ivi iniziato il programma terapeutico, a sottoporsi alle cure in località lontana dalla propria sede di lavoro”.

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