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Alternativa alla lezione frontale? Cos’è la “situazione-stimolo”. Valutare i progressi non gli errori. Ne parliamo con Daniele Novara

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Abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, per parlare di come sia possibile un nuovo modo di fare scuola in prospettiva della riapertura del nuovo anno scolastico e di quali idee vogliono proporre nel prossimo convegno nazionale che il CPP ha organizzato per il prossimo 31 agosto.

Professor Novara, si è appena concluso un difficile anno scolastico che ci ha lasciato ancora tante incognite e differenti punti di vista su come affrontare i problemi. In attesa che arrivi settembre, come ci dobbiamo preparare al nuovo anno scolastico?

Una bella domanda, anch’io la vorrei fare a chi dirige la scuola per chiedere quali intenzioni ci siano e se fosse possibile tornare ad una parvenza di normalità che ci porti a fare scuola senza le mascherine. Il volto è una figura pedagogica basilare, senza scomodare i filosofi dell’educazione, però va detto che esso è l’elemento centrale della relazione. Senza la presenza della faccia noi perdiamo la sostanza relazionale profonda, la nostra specificità, la nostra originalità. Da sempre il volto crea un imprinting nelle relazioni molto importanti. Ci sono molte ricerche che dimostrano l’importanza del sorriso nel neonato, di come questo gesto attivi nella madre un atteggiamento empatico e di accudimento. Senza il sorriso non possiamo interagire con gli altri e la mia speranza è che si possa tornare alla normalità, ma senza imporre la vaccinazione ai bambini, sarebbe molto grave perché le medicine le usa chi ne ha bisogno e non si possono imporre trattamenti terapeutici o medico-farmacologici, come un vaccino, a chi non ne ha bisogno. Tutti gli studi epidemiologici hanno dimostrato che i bambini non sono stati colpiti dal Covid-19, quindi questo accanimento verso di loro e verso i loro genitori non ha alcun senso. Mi auguro che le istituzioni finalmente incomincino a fare scelte adeguate e non a prendere decisioni randomiche come accaduto nel periodo primaverile dove sono state chiuse le scuole senza averne reale necessità. Questa scelta ha provocato che in Italia abbiamo avuto il periodo di chiusura delle scuole più lungo al mondo, con gravi danni psicologici nei nostri ragazzi come ad esempio episodi di esplosione di rabbia. Non possiamo sacrificare i più giovani se non ce n’è una reale necessità. A scuola ci si torna sperando di tornare a fare scuola, a ritrovarci, a vivere le relazioni. La scuola è un insieme di relazioni che vanno create a cominciare dal gruppo classe, ma è possibile farlo se ci sono le condizioni, altrimenti si incespica e si finisce sempre al punto di partenza come in un eterno gioco dell’oca.

Questa estate il CPP non si ferma, anzi dà il proprio contributo per parlare di scuola. A scuola con coraggio è il tema del convegno nazionale organizzato da lei e dal CPP il prossimo 31 agosto per parlare di insegnamento e degli strumenti giusti da adottare. Può spiegarci più nel dettaglio questa metodologia?

L’idea che ho avuto, e che abbiamo sviluppato con il mio staff, è stata quella di condividere il mio metodo. Si tratta di un metodo maieutico che si ispira anche all’esperienza di Danilo Dolci ma che rappresenta una metafora del far nascere, del tirar fuori. È un classico convegno pedagogico pre-scolastico che renderei quasi obbligatorio per tutte le scuole e tutti gli insegnanti. Non è semplicemente un rito, ma un punto cardine all’inizio del nuovo anno scolastico per ricreare un linguaggio comune. Oggi la scuola soffre di una grave carenza di un comune linguaggio pedagogico. Quando gli insegnanti parlano ai genitori dei propri alunni non sempre usano un linguaggio né comprensibile né pedagogico. A volte può capitare che usino un linguaggio informatico oppure un linguaggio condizionato da motivi di sicurezza o un linguaggio neuromedico.

Abbiamo bisogno di ricostruire per la scuola una comunità che sia in grado di parlare una lingua comune, la lingua dell’educazione, dell’apprendimento, della scuola che è la lingua della pedagogia. L’Italia ha un grave ritardo in questo campo nonostante sia la patria di una figura fondamentale in ambito pedagogico moderno come Maria Montessori. Per queste ragioni ho deciso con il mio staff di mettere a disposizione il mio metodo, che porto avanti da circa quarant’anni, che è molto efficace e a costo zero e che è basato sull’insegnante come risorsa, cioè sul rafforzare le sue capacità di regia educativa-pedagogica e in questo convegno cercheremo di fornire gli strumenti specifici. Oggi quasi tutti sostengono che la lezione frontale debba essere superata, però ci vogliono delle alternative. Nel mio libro “cambiare la scuola si può”, dove ho illustrato questo metodo, affermo che l’alternativa alla lezione frontale è la cosiddetta situazione-stimolo. Invece che partire con uno “spiegone” si parte con un’esperienza, un’immagine, un racconto, una storia, una visita, che diventa poi l’occasione per generare domande e quindi creare quello che da sempre definisco il laboratorio maieutico. Si deve uscire da un’idea tradizionale,arcaica, che gli alunni imparino ascoltando gli insegnanti, non è così. Grazie alle neuroscienze oggi sappiamo che l’alunno impara attraverso due processi centrali che sono quello di imitazione reciproca, sia con gli insegnanti che con i pari, e quello dell’esperienza che porta a mettersi alla prova, a costruire delle competenze reali. La situazione-stimolo attiva le domande maieutiche che sono domande alle quali nemmeno l’insegnante ha delle risposte precise, ma che attiva nei ragazzi il bisogno di cercare una risposta attraverso le informazioni disciplinari necessarie messe a disposizione dal docente. Quindi è un’inversione dei termini della scuola tradizionale.

Nel mio metodo anziché utilizzare le informazioni disciplinari per fare la lezione, esse vengono utilizzate per risolvere problemi, per affrontare laboratori e per dare seguito alle domande maieutiche che scaturiscono dagli alunni. È un metodo molto motivazionale ed estremamente scientifico, inoltre è ben accettato dai bambini e dai ragazzi, e i risultati registrati nei centri che l’adottano sono entusiasmanti. Il metodo che ho ideato è strettamente scientifico, è il risultato delle informazioni che ho raccolto in questi decenni dalle neuroscienze, dalla psicologia dell’età evolutiva, dalla storia della pedagogia. Ad esempio dal mutuo insegnamento, già utilizzato da don Milani e dal grande Pestalozzi, abbiamo compreso che a scuola gli alunni imparano prevalentemente tra di loro, nella reciprocità, nello scambio, dove gli alunni condividono tra loro le informazioni, cosa ben diversa dall’ascolto passivo a cui siamo abituati nella scuola tradizionale.

Un altro strumento pedagogico estremamente importante, che mettiamo a disposizione degli insegnanti, è quello della valutazione evolutiva che rappresenta la vera chiave di volta per trasformare la scuola. In partica vuol dire uscire dalla valutazione assoluta, ossia dalla valutazione centrata sugli errori, per passare ad una valutazione incentrata sui progressi. Per fare ciò è necessario partire all’inizio di ogni anno scolastico da una prova d’opera iniziale per capire esattamente a che punto sono i nostri alunni e su questa base costruire la valutazione, vedere quali progressi hanno fatto rispetto al punto di partenza. La prova d’opera iniziale non è una semplice scheda, ma un’esperienza, io sono per una scuola di comunità, della vita concreta, dello scambio, una scuola dove si fanno esperienze. La valutazione evolutiva permette a tutti di misurare i propri progressi, anche per gli alunni con certificazione, e di sentire effettivamente la propria crescita. L’insegnante non valuta più gli errori, ma i progressi. Gli errori aiutano a crescere, non si può imparare senza sbagliare, come ci ha insegnato la Montessori.

Sintetizzando quello che ci siamo detti fino ad ora, potremmo dire che la scuola oggi è vittima di una errata chiave di lettura che ha caratterizzato gli ultimi 100 anni della sua esistenza e che nasce dalla riforma Gentile, trascurando tutta quella che è stata la storia dell’educazione. Una frase attribuita a Confucio recita che “se ascolto dimentico, se osservo ricordo, se faccio comprendo” e che oggi possiamo apprezzarne tutta la sua bontà grazie alle ricerche neuroscientifiche.

Tutto corretto, aggiungo le ricerche neuroscientifiche che hanno dimostrato l’importanza dell’uso della mano. Nel neonato, nel primo anno di vita, il 90% delle connessioni neurocerebrali sono quelle della mano. Quindi la mano va usata non per picchiettare su una tastiera ma come esperienza globale complessiva. Anch’io quando parlo, per connettere meglio il mio cervello, devo muovere le mani. Non è un gesticolare italico, come dice qualcuno, ma una necessità. I grandi oratori, come ad esempio Obama, gesticolano sempre e non potrebbero fare diversamente. La connessione mano-cervello è la base di tutto. La nostra specie liberando le mani per le funzioni superiori ha fatto un salto evolutivo. Questo sta a dimostrare che non è l’ascolto la via principale per l’apprendimento, ma il fare.

Soffermiamoci sull’analisi della mano. La Montessori affermava che la mano è lo strumento dell’apprendimento, lei pone l’accento anche sul discorso della grafia, dell’importanza delle curve che disegniamo nello scrivere. Quanto è importante questo utilizzo attivo della mano nella scrittura e non solo per picchiettare dei tasti.

Parto ringraziandovi per avere sostenuto il mio appello per il mantenimento della penna nella scrittura, anche questa è un’informazione di carattere scientifico. Nulla contro le tecnologie, però ogni cosa a suo tempo e specialmente usare le tecnologie con intelligenza. Molti studi dimostrano che tentare di imparare a leggere e scrivere sulla tastiera produce seri ritardi. L’eccesso di monitor che di utilizzo precoce delle tastiere, come ci dicono le logopediste, provoca degli inceppamenti nei meccanismi di letto-scrittura. Non è il caso di fare del male ai propri figli e ai propri alunni, per questo è importante mantenere la penna perché c’è una sensitività particolare in questo processo attivo. Non possiamo pensare di sostituire un processo molto articolato dal punto di vista neurocerebrale quale la scrittura, strutturato da curve e pause, con una tastiera che invece è un movimento ripetitivo e che non produce una connessione neurocerebrale sufficiente a sviluppare tutte le risorse. Temo che tanti ritardi a cui stiamo assistendo negli ultimi 5/6 anni siano dovuti ad un utilizzo di tablet e smartphone in maniera eccessivamente precoce. È mia convinzione che la scuola primaria debba mantenere la priorità assoluta nell’uso della penna, pena gravi ritardi nella letto-scrittura come ci dicono tutte le ricerche in questo ambito.

Lo strumento informatico si è rivelato utile nelle fasi di chiusura totale della scuola pur dimostrando, però, molti limiti nelle fasi applicative. Lei è stato da sempre un sostenitore della didattica in presenza perché, come ci spiegava prima, solo in presenza è possibile interagire tra le persone e avviare relazioni efficaci. Come si innesta in questo contesto il suo metodo maieutico?

Nell’ultima fase di questo anno scolastico le scuole sono state tutte riaperte seppur con gravi restrizioni. Nella seconda ondata, parliamo di novembre 2020, i bambini della primaria vengono obbligati a portare la mascherina, ritengo questa decisione equivoca, sbagliata, i dati epidemiologici hanno dimostrato che il virus non ha aggredito i bambini e i casi che ci sono stati, che comunque non hanno sviluppato sintomi gravi, arrivavano prevalentemente da contatti con adulti, per cui sono convinto che non sia necessario tornare alla DAD. Come CPP abbiamo sostenuto gli insegnati che ci seguono nell’utilizzo di una DAD maieutica mediante l’utilizzo del mio metodo che ho cercato di spiegare precedentemente in pochi minuti.

È possibile, indubbiamente, anche se vengono a mancare basilari senso-corporei molto significativi. La DAD che abbiamo vissuto, come puro e semplice video-lezionismo, nella maggior parte dei casi, ha accentuato la modalità trasmissiva della lezione frontale. Nell’uso della maieutica nella DAD, invece, aumenta la capacità di lavorare in gruppo, anche se a distanza, e si cerca di mantener gli alunni sempre in attività. I documenti ministeriali si stanno avvicinando alle nostre idee, spero sempre con maggior coraggio, ma intanto nella scuola primaria si è tornati ad una valutazione narrativa piuttosto che numerica e questo è un buon inizio. L’Italia stava diventando la pecora nera in Europa e serviva cambiare qualcosa. Un insegnante preparato pedagogicamente, che applica il metodo maieutico, ce la farà anche a distanza, seppur con alcuni limiti legati alla situazione; ma un insegnante che approccia solo dal punto di vista nozionistico, che poi è la modalità di reclutamento dei docenti della scuola secondaria, avrà grosse difficoltà perché manca l’organizzazione pedagogica. Oggi le discipline, la conoscenza sono alla portata di tutti, non siamo più ai tempi di Gentile dove c’era il professore cattedratico che dispensava conoscenza, piuttosto servono insegnanti in grado di aiutare ad organizzare i propri apprendimenti al fine di acquisire competenze operative.

Un’ultima domanda. Nella precedente risposta che ci ha dato c’è un aspetto importante che riguarda l’educare la persona piuttosto che la mera somministrazione di conoscenze. Riscoprire il piacere di imparare, che lei, con il suo metodo pedagogico, cerca di portare nuovamente nella scuola. A questo punto le chiedo quanto sarebbe importante oggi valorizzare la figura del pedagogista all’interno della scuola.

È importante, ma anche questo sarebbe un ripristino. Infatti fino ai primi anni del 2000 ogni scuola poteva selezionare tra il proprio personale una figura che svolgesse il ruolo di psicopedagogista della scuola stessa e che era di supporto ai suoi colleghi nella progettazione educativa. Negli ultimi 20 anni, invece, la scuola si è completamente scollegata dal background pedagogico. Oggi l’Italia è l’unico paese europeo che non ha una figura pedagogica riconosciuta nella scuola. Nelle altre nazioni la scienza pedagogica è riconosciuta come il punto di riferimento per l’istituzione scolastica e quindi viene rafforzata una presenza di questo tipo al suo interno. La figura del pedagogista assume un ruolo ancor più significativo oggi che abbiamo dirigenti scolastici sempre più formati e reclutati sul piano delle competenze amministrative. In realtà alcune scuole si sono dotate di queste figure grazie al sistema dell’autonomia scolastica. Mi è capitato di partecipare ad una riunione con i docenti di una scuola primaria, perché stavo seguendo tramite la famiglia un bambino, e nella riunione è comparso un pedagogista, che non era in pianta stabile nella scuola, ma a cui la scuola si appoggiava per alcune situazioni. Questa figura è stata fondamentale durante la riunione, perché ha permesso ai docenti di capire esattamente di cosa si stava parlando in termini pedagogici. È un aspetto, quello del pedagogista, che ho trattato anche nel mio ultimo libro “i bambini sono sempre gli ultimi”, sarebbe importante che il Ministero lavorasse in questa direzione soprattutto ora che stanno arrivando tanti fondi. Purtroppo siamo ancora in attesa che la legge proposta da Vanna Iori si trasformi in un atto concreto, cioè che finalmente la pedagogia non sia solo una materia accademica, ma che torni ad essere quella scienza pratica che si vive all’interno delle scuole. Il rischio maggiore è che gli insegnanti siano semplicemente degli ex alunni in cattedra oppure degli insegnati fai da te senza un background professionale. La colpa, sia ben chiaro, non è dei docenti, ma legato alle procedure di arruolamento e formazione. Dobbiamo uscire da questo tunnel nel quale ci siamo cacciati negli ultimi venti anni e nel nostro convegno portiamo l’attenzione sull’idea che la risorsa della scuola è l’insegnante, che va oltre al semplice restyling architettonico o tecnologico delle scuole. Tutte le grandi esperienze pedagogiche hanno funzionato in condizioni di estrema austerità, penso ai pellegrinaggi fatti a Barbiana da ragazzo e alla fatica di quei due ultimi chilometri fatti a piedi, oppure al lavoro di Mario Lodi svolto girando nei paesini della bassa cremonese. Questi esempi dimostrano che le grandi esperienze pedagogiche non è che nascano nell’abbondanza, ma nascono quando ci sono insegnanti carichi di passione professionale, di fiducia nei loro alunni e quindi sanno fare le mosse giuste. La pedagogia è una scienza pratica e cercheremo, nel nostro convegno, di fornire strumenti utili a tutti gli insegnanti affinché quello che ci siamo detti oggi si trasformi in una realtà concreta.

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