“Sì smartphone in classe, per fare didattica”. “Smartphone sì o no?” Domanda corretta è: “Smartphone come”. INTERVISTA al Professor Raciti

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“Negare a scuola l’uso dello smartphone sarebbe come se, dopo aver regalato uno scooter a un ragazzino, gli negassimo poi la possibilità di conoscere i segnali stradali e di imparare a guidare in maniera prudente e consapevole. Lo smartphone non è un’arma, ma può diventarlo davvero se utilizzato in maniera irresponsabile. È proprio per questo che la scuola dovrebbe raccogliere questa sfida e trasformarla in una preziosa opportunità educativa, anziché chiudere questi strumenti dentro un cassetto”.

Sta montando il dibattito circa l’opportunità di vietare o quantomeno scoraggiare l’uso dello smartphone all’interno delle aule scolastiche per ovviare al problema della distrazione causata dall’uso improprio che molti alunni farebbero del dispositivo durante le lezioni. Il professor Andrea Raciti, formatore sulle competenze digitali e docente di sostegno presso I.C.S. “G.B. Nicolosi” di Paternò, prende una netta posizione contro l’idea che il telefono degli alunni debba essere messo in un cassetto durante le lezioni e sottolinea la necessità e l’urgenza che la scuola italiana, al contrario, soddisfi in maniera piena e decisa il diritto degli alunni a ricevere dagli insegnanti un’educazione all’uso costruttivo dello smartphone, un diritto peraltro codificato in norme e direttive rivolte a scuole e docenti, che hanno abolito di fatto le Circolari ministeriali dei primi anni 2000 che vietavano l’uso dei cellulari in classe. Sarebbe dunque anacronistico, anche per questo motivo, continuare a porsi il quesito: smartphone in classe: sì o no? “Il nostro lavoro – insiste Raciti – è quello di cogliere le sfide attuali e di prendere per mano i ragazzi, in questo caso guidandoli verso un uso critico, responsabile e consapevole delle tecnologie. È questo secondo me il ruolo della scuola. Dobbiamo decidere, una volta per tutte, se la scuola, anche nell’ambito dello sviluppo delle competenze di cittadinanza digitale, debba occuparsi di promuovere la crescita della persona”.

Professor Andrea Raciti, perché secondo lei sarebbe sbagliato chiudere in un cassetto il telefono cellulare degli alunni per consegnarlo loro solo a lezioni terminate?

“Io credo che, effettivamente, la società abbia commesso un grave errore a consegnare nelle mani di bambini e ragazzini una tecnologia così delicata e pericolosa che pure ci apre degli importanti scenari sociali e culturali. Ha sbagliato perché, oltre a generare dipendenza, l’uso improprio delle nuove tecnologie può creare nei più giovani disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e problemi di memoria. Per non parlare della drammatica amplificazione del fenomeni di cyberbullismo, dove le conseguenze psicologiche per le vittime diventano talvolta devastanti proprio a causa di un ambiente virtuale di cui spesso si perde il controllo e in cui i ragazzi non hanno ancora imparato a relazionarsi. Ma l’errore di consegnare questa tecnologia a giovani e giovanissimi lo abbiamo già commesso e adesso è difficile tornare indietro. A mio avviso, noi adulti ci troviamo di fronte a una grande responsabilità: non possiamo dichiaraci contrari all’uso di questi strumenti da parte degli adolescenti e, allo stesso tempo, continuare ad assistere indifferentemente, sottraendoci al nostro ruolo educativo di genitori e di insegnanti, a un cambiamento epocale della società nel modo di comunicare, di socializzare e di apprendere”.

Dunque, che cosa fare?

“Se gli adolescenti trascorrono l’intera giornata davanti allo smartphone, facendone tra l’altro un uso non sempre responsabile, la scuola deve riconoscere l’urgenza di fare entrare questi strumenti in classe, non solo per gli aspetti strettamente didattici – e mi riferisco alle straordinarie potenzialità che la didattica digitale può offrire nell’apprendimento delle varie discipline – ma soprattutto perché solamente attraverso la guida degli insegnanti è possibile promuovere nei ragazzi un utilizzo critico, responsabile e consapevole delle nuove tecnologie. Insomma, non possiamo chiudere la questione semplicemente dicendo loro: non puoi usare lo smartphone a scuola. Che senso avrebbe sposare un modello che vieta categoricamente lo strumento in classe, facendo riporre lo smartphone dentro un cassetto all’inizio delle lezioni, se poi lasciamo i nostri ragazzi liberi di utilizzarlo per l’intera giornata, spesso anche a tavola o persino di notte, senza alcuna guida da parte degli adulti e sprecando, di fatto, l’opportunità di promuovere in classe quelle dinamiche educative così importanti per lo sviluppo della responsabilità e del senso critico? Lo smartphone, di per sé, rappresenta uno strumento neutro: bisogna educare i ragazzi al suo utilizzo, così come facciamo per tanti altri strumenti didattici quali la riga o il compasso. Non è lo strumento ad essere negativo, ma può esserlo l’uso che se ne fa e allora la scuola deve assumersi la responsabilità di stipulare con le famiglie un patto educativo in grado di offrire ai ragazzi modelli efficaci che possano accompagnarli nel diventare cittadini digitali”.

Il compasso non distrae, distrae lo smartphone

“A scuola non deve essere permesso l’utilizzo dello smartphone fuori dal contesto strettamente didattico e, in ogni caso, senza che venga espressamente richiesto dall’insegnante. Su questo non vi è alcun dubbio”.

Spesso però non si riesce a non farlo usare come svago durante la lezione.

“Non sono d’accordo, si riesce, si riesce. È ovvio che all’alunno non può essere consentito di interagire sui social network mentre io sto spiegando, ma è proprio per questo che bisogna educarli all’uso dello smartphone. Non riesco a immaginare di far lasciare in un cassetto lo smartphone ai ragazzi appena arrivano a scuola. Certo, magari è più semplice gestire la classe con i telefoni chiusi nel cassetto, ma io mi chiedo quale sia il mio compito di insegnante: le competenze di cittadinanza digitale sono trasversali rispetto a tutte le materie scolastiche e, in questo esatto momento storico, devono essere collocate al primo posto, anche rischiando di sacrificare, se necessario, qualche contenuto disciplinare. Come si fa a educare ai media senza i media? Come facciamo a insegnare ai nostri figli a guidare se non gli permettiamo di usare l’automobile con noi accanto? Io sono disposto ad assumermi qualche rischio. Credo davvero che a scuola non si possa più fare a meno di promuovere lo sviluppo di competenze di cittadinanza digitale e questo si può ottenere solo permettendo ai ragazzi di portare in classe i loro dispositivi personali”.

Ma la classe docente è in grado di formare sulle competenze digitali?

“E qui tocchiamo due temi importanti: quello della formazione e quello del reclutamento degli insegnanti. Oggi non possiamo restare fermi a guardare. Il ruolo del docente non è solo quello di insegnare formule matematiche o di fare in modo che gli alunni possano conoscere e comprendere il pensiero e le opere degli scrittori in programma, ma è anche quello di prendere per mano i ragazzi e di farli crescere, offrendogli strumenti con cui possano affrontare al meglio le sfide della nostra epoca. Il diritto-dovere alla formazione è un tema delicatissimo sul quale tutti dovremmo riflettere e sul quale le nostre istituzioni dovrebbero ragionare se davvero vogliamo che la scuola sia in grado di anticipare i cambiamenti della società. Come ho detto prima, la scuola non può ignorare il cambiamento in atto del modo di comunicare, di socializzare e di apprendere”.

Come si fa?

“Iniziamo col ricordare che la Circolare del 2007 dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni, che vietava categoricamente l’utilizzo da parte degli studenti e del personale docente di telefoni cellulari e di altri dispositivi elettronici durante l’attività didattica, viene di fatto superata dall’Azione #6 del Piano Nazionale Scuola Digitale (2015) – Linee guida per politiche attive di BYOD (Bring Your Own Device) – che prevede espressamente la possibilità di utilizzare a scopi didattici i dispositivi personali degli alunni e degli insegnanti, promuovendo l’integrazione degli stessi con la dotazione tecnologica delle scuole. L’espressione Bring Your Own Device, che tradotta letteralmente significa porta il tuo dispositivo con te, viene successivamente declinata dallo stesso Ministero dell’Istruzione, nel 2018, attraverso il decalogo Dieci punti per l’uso dei dispositivi mobili a scuola. Un orientamento, questo, avallato anche dal Garante per la protezione dei dati personali che, all’interno vademecum La scuola a prova di privacy, redatto nel 2016, ammetteva già l’utilizzo dei telefoni cellulari, rimandando alle istituzioni scolastiche la possibilità di regolarne o inibirne l’utilizzo all’interno dei propri ambienti nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone coinvolte. Secondo me, non è più una questione di come io o tu la possiamo pensare al riguardo: qui si tratta di una vera e propria emergenza educativa, questi ragazzi hanno il diritto di essere guidati e noi il dovere di guidarli. Non dobbiamo e non possiamo tirarci indietro”.

Professor Raciti, insisto, nessuno vieta ai ragazzi di usare il cellulare per scopi di didattici, il tema è un altro: la distrazione dalla lezione.

“Nel 2018 si leggeva su tutti i giornali che la Francia, proprio per fornire una risposta al problema, era finalmente intervenuta promulgando un’apposita legge che vietava l’uso dei telefoni cellulari in classe. Ma andando a leggere la norma con attenzione e senza lasciarsi condizionare dai titoli altisonanti dei quotidiani, ci si accorgeva che il testo stesso della legge prevedeva una deroga il divieto, ammettendo espressamente il ricorso ai dispositivi personali degli alunni per uso pedagogico. Ma davvero in Italia vogliamo chiudere in un cassetto gli smartphone degli alunni? A volte la soluzione che proponiamo per affrontare un problema, che indubbiamente esiste, può anche essere peggiore del problema stesso. A mio avviso, a scuola l’educazione ai media è irrinunciabile. Per evitare il problema della gestione dei dispositivi personali in classe, stiamo rischiando di escludere questi strumenti dalla didattica quotidiana. Siamo tutti d’accordo in merito all’opportunità di prevedere provvedimenti disciplinari nei confronti degli alunni che fanno un uso scorretto dei propri dispositivi a scuola. Ma è proprio attraverso un normale ricorso allo smartphone nella didattica quotidiana che, a mio avviso, è possibile ridurre il rischio che questo venga utilizzato in maniera scorretta dagli studenti. Qualche anno fa lessi di una sperimentazione condotta nel 2012 da Canalescuola su un campione di 200 alunni che evidenziava come gli studenti che in classe utilizzano il computer per integrare la didattica tradizionale ne indirizzerebbero poi l’uso soprattutto alle attività scolastiche, trascorrendo meno tempo davanti a questi strumenti, facendone a casa un uso più efficace rispetto ai loro coetanei e apportando una competenza significativa all’interno della propria famiglia”.

La scuola, dunque, deve prendere in mano la situazione e non limitarsi a rimuovere il problema. È così?

“Lo smartphone non è un’arma, ma può diventarlo davvero se utilizzato in maniera irresponsabile. È proprio per questo che la scuola, se vogliamo veramente provare a costruire una società migliore, dovrebbe raccogliere questa sfida e trasformarla in una preziosa opportunità educativa, anziché chiudere questi strumenti dentro un cassetto. Il nostro lavoro – insisto – è quello di cogliere le sfide attuali e di prendere per mano i ragazzi, in questo caso guidandoli verso un uso critico, responsabile e consapevole delle tecnologie. È questo secondo me il ruolo della scuola. Dobbiamo decidere, una volta per tutte, se la scuola, anche nell’ambito dello sviluppo delle competenze di cittadinanza digitale, debba occuparsi di promuovere la crescita della persona. I nostri ragazzi e le nostre ragazze devono imparare a socializzare anche attraverso le tecnologie, perché questo li riguarda e, a dire il vero, riguarda anche noi adulti. Si insultano? E allora parliamone. E questo parliamone viene prima di tanti contenuti, di cui, in qualche caso, si potrebbe forse anche fare a meno. Questa emergenza educativa, invece, non è più procrastinabile. Non ci dobbiamo lasciare spaventare dagli strumenti: questi cambiano, ma restano salde le competenze. Non stiamo mettendo in discussione la nostra professionalità, la nostra esperienza, i valori in cui crediamo, le competenze e i contenuti che caratterizzano l’insegnamento delle varie discipline: stiamo semplicemente dando ascolto alle esigenze educative che derivano dall’evoluzione della società in cui viviamo, cercando di promuovere lo sviluppo di una vera cultura digitale”.

Eppure Steve Jobs e Bill Gates hanno vietato le tecnologie ai loro bambini. Evidentemente conoscevano bene la potenza disturbatrice di questi strumenti, come ha ricordato di recente su queste colonne il preside Marco Ferrari di Bologna, che ha chiesto ai suoi alunni di lasciare il telefono mobile in un cassetto durante la lezione, meritandosi il gradimento non solo degli alunni ma anche quello dei loro genitori”

“Io dico che Steve Jobs e Bill Gates hanno fatto bene. Noi, invece, non siamo stati altrettanto bravi. È questo il punto. Noi non lo abbiamo fatto. Al contrario, come adulti, abbiamo consegnato nelle mani di giovani e giovanissimi una tecnologia che non sanno gestire e ora vogliamo negare loro anche il diritto di essere educati a un uso consapevole e costruttivo di questo strumento. Davvero questo vogliamo fare? Sarebbe come se dopo aver regalato uno scooter a un ragazzino, gli negassimo poi la possibilità di conoscere i segnali stradali e di imparare a guidare in maniera prudente e consapevole. Allo stesso modo, continuiamo a offrire questa tecnologia ai ragazzini – ed ed è un errore, lo sottolineo – ma un errore ancora più grande sarebbe smentire noi stessi, cioè negar loro il diritto ad essere guidati verso un uso consapevole dello strumento. Se il tema fosse: Facciamo in modo che prima dei 16 anni è vietato usare lo smartphone, il discorso sarebbe diverso. Invece i genitori glielo danno, spesso senza operare alcun controllo sull’utilizzo, e poi qualcuno si scandalizza se lo facciamo entrare in classe: secondo me tutto questo è illogico e anche un po’ ipocrita, mi consenta di dirlo. I genitori sono giustamente contrari all’uso dello smartphone in età precoce, ma poi gliene regalano uno per Natale o per il compleanno e tutti noi, dopo, ci poniamo tanti dubbi e tante domande sull’opportunità che gli insegnanti lo facciano portare a scuola, unico posto dove si può immaginare un suo utilizzo guidato”.

Guidato per fare cosa? Passiamo a questo aspetto decisivo

“Per aiutarli a individuare le fake news, per educarli a fare un uso critico delle notizie che trovano sul web, per insegnar loro a trovare soluzioni e opportunità in rete, per educarli a difendersi dai pericoli che queste tecnologie possono veicolare, per scongiurare il rischio che diventino vittime o autori di episodi di cyberbullismo, oppure, semplicemente, per integrare la lezione con i dispositivi mobili degli studenti, catalizzando il loro interesse e la loro partecipazione, stimolando la loro creatività e promuovendo una didattica laboratoriale di tipo metacognitivo. Ritengo tuttavia che per esprimere una didattica di qualità non sia indispensabile ricorrere agli strumenti digitali. Tuttavia, il loro utilizzo potrebbe rappresentare il cavallo di Troia per poter veicolare, anche indirettamente, competenze di cittadinanza digitale oggi irrinunciabili e, aggiungerei, per esportare in qualsiasi contesto di vita quotidiana il rispetto delle regole, delle persone e della proprietà altrui: se io sto facendo una ricerca assieme agli alunni e raccomando loro di utilizzare, diversamente da come farebbero altrimenti, immagini e altri materiali nel rispetto del diritto d’autore, magari attingendo a contenuti di pubblico dominio o rilasciati sotto licenza Creative Commons, allora voglio illudermi che per loro inizierà a diventare spontaneo procedere nello stesso modo quando si troveranno da soli in altri contesti: questa è cultura digitale. E dove dovrebbe svilupparsi la cultura digitale se non dentro la classe ogni mattina? Non ho alcun problema ad ammettere che tutto questo può comportare anche qualche rischio, ma davvero non riesco a immaginare luogo migliore della scuola per promuovere lo sviluppo di queste competenze”.

Quando si parla di tecnologie a scuola, vengono in mente le tante opportunità inclusive fornite dalle medesime, non sempre usate dai docenti.

“Sono tante le opportunità inclusive che le tecnologie digitali possono offrire agli alunni con Bisogni Educativi Speciali. Esistono straordinarie applicazioni appositamente progettate per garantire il diritto all’istruzione degli alunni con DSA o per favorire l’inclusione scolastica e sociale degli alunni con disabilità certificata. Mi riferisco, solo per fare qualche esempio, ad applicazioni di sintesi vocale che permettono di trasformare un compito di lettura in un compito di ascolto, applicazioni per la creazione e la condivisioni di mappe concettuali online in grado di favorire l’organizzazione delle conoscenze in ambiente digitale, applicazioni CAA progettate allo scopo di favorire lo sviluppo della comunicazione: ad esempio in presenza di alunni con disturbo dello spettro autistico grave, e altro. Ritengo che il talento di un insegnante si misuri dalla sua capacità di rispondere ai bisogni formativi di tutti i suoi studenti, soprattutto di quelli più fragili. Gli strumenti digitali rappresentano senza alcun dubbio un’opportunità efficace in questo contesto e credo che sia veramente possibile, finalmente, immaginare una scuola che ricorra quotidianamente a soluzioni di tipo tecnologico per garantire il diritto allo studio degli alunni con Bisogni Educativi Speciali”.

Secondo lei a quale età si può iniziare a portare a scuola il proprio dispositivo per farne un uso didattico con l’aiuto dei docenti?

“All’interno del Piano Nazionale Scuola Digitale non troviamo una chiara indicazione al riguardo. Direi che l’età migliore per iniziare a guidare gli alunni in classe verso l’utilizzo consapevole dei loro dispositivi mobili coincide semplicemente con il momento stesso in cui abbiamo consegnato nelle loro mani questa tecnologia”.

Quando gli hai dato la moto…

“Esatto. È proprio come quando si compra lo scooter al proprio figlio: quello è il momento giusto per insegnargli a guidarlo. Io non sono favorevole all’acquisto precoce di uno smartphone. Tutt’altro: io lo sconsiglierei prima dei 14-16 anni, quando di fatto, a seconda delle specifiche piattaforme utilizzate, è lecitamente possibile interagire attraverso i più diffusi social network.

Capita che alcuni genitori mi dicano: Mio figlio usa il cellulare a casa e naviga in internet da solo. Io allora rispondo: Fateglielo portare a scuola. Prendiamo insieme per mano questi ragazzi e aiutiamoli ad attraversare una strada che presenta, al contempo, grandi insidie e straordinarie opportunità per il loro futuro”.

Lo smartphone affatica e distrae anche in classe: è questa l’accusa che arriva dagli insegnanti.

“Quando lo smartphone distrae? A mio avviso, quando viene usato dagli alunni per scopi differenti. Ma le distrazioni possono essere anche altre. Il rischio di distrazione non può costituire, a mio avviso, un alibi per tagliare fuori i dispositivi personali dalla didattica. Credo che ormai sia anacronistico porsi la domanda:Smartphone sì o no? Bisogna semmai porsi la domanda: Smartphone come? Forse dovremmo avere maggiore fiducia in noi stessi e nei nostri alunni. Siamo sicuri che, chiedendo di tenere chiuso il telefono dentro un cassetto e deresponsabilizzando di fatto i ragazzi, non rischiamo di produrre un effetto contrario a quello desiderato? È proprio nella capacità di saper responsabilizzare gli studenti e nella gestione di certi equilibri in classe che entrano in gioco le competenze e il talento dell’insegnante. In questo contesto, come dicevo poc’anzi, credo fortemente nel valore della formazione in servizio, oltre che nell’importanza che il sistema di reclutamento adottato dalla scuola italiana può assumere nel selezionare i docenti più preparati e per puntare a un’istruzione di qualità”.

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