Il docente è anche un “educatore affettivo”: “Serve che sappia stare con la rabbia e con la gioia dell’alunno”. INTERVISTA a Gaetano Cotena

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“L’insegnante non è l’educatore affettivo, compito che spetta ai genitori”. L’affermazione dello psichiatra Raffaele Morelli, già rilasciata tempo fa al quotidiano La Verità e rilanciata sui social nei giorni scorsi, sta facendo molto discutere il popolo degli insegnanti, specie dopo i recenti casi di cronaca. “Lui – prosegue Morelli – incarna l’autorità del sapere. Ma poiché non c’è insegnamento senza relazione, deve anche conoscere i codici della crescita”. Abbiamo rivolto in proposito alcune domande a Gaetano Cotena, psicoterapeuta, professore a contratto di Psicologia Clinica e Abilità relazionali presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Brescia e docente di Scienze Umane presso il Liceo G. Galilei di Ostiglia. Cotena, che è anche autore del libro Insegnare senza farsi male (UTET, 2021),

Professor Cotena, non ci sarà affetto o bisogno di affetto, ma che cos’è l’affettività in psicologia?

“E’ l’insieme delle emozioni e delle passioni che caratterizzano la vita psichica di un individuo. Io non sono d’accordo con Morelli, perché dire che l’insegnante non debba essere un educatore all’affettività significa non conoscere il ruolo della scuola e dell’insegnante e significa non conoscere le richieste che il Ministero dell’Istruzione fa all’insegnante. Queste affermazioni che sento spesso sono tipiche di chi parla di scuola pur non conoscendola dal di dentro e non avendo mai messo piede in una classe come docente. Togliere al docente l’educazione all’emotività e all’affettività significa ridurlo a strumento di trasmissione di conoscenze e di cultura generale e togliergli un ruolo fondamentale per il benessere che gli psicologi conoscono bene: quello dell’adulto di riferimento, a volte anche alternativo alle figure genitoriali nella gestione dell’emotività. Io conosco bene la differenza tra un docente e uno psicoterapeuta e tra educazione e cura ma il fatto che docente e alunno si incontrino per due, cinque, otto ore alla settimana tutti i giorni, e a volte per anni, rappresenta una grande risorsa per la crescita emotiva e relazionale dell’individuo che per tutta la vita – e ancor più quando è bambino e adolescente – si identifica con i comportamenti e le modalità relazionali che incontra negli adulti facendole proprie ed è anche per questo che il docente dev’essere formato alla gestione della relazione e delle dinamiche emotive dell’educazione: affinché possa rappresentare un adulto dal quale l’alunno possa acquisire modelli di gestione dell’emotività che siano funzionali al benessere. Certamente il genitore è un educatore affettivo, ma non sono d’accordo quando si dice che il docente non debba esserlo. Anzi, spesso quando il genitore è carente in alcune competenze emotive o nella gestione di alcuni aspetti dell’emotività, il docente rappresenta per il bambino o l’adolescente un adulto alternativo con il quale identificarsi per acquisire un modello funzionale di gestione dell’emotività. E questo può fare la differenza tra il benessere e il malessere per il futuro adulto. Dunque dire che il docente non debba educare all’affettività significa togliere alla scuola un ruolo fondamentale nell’educazione al benessere emotivo e soprattutto alla strutturazione di modalità relazioni funzionali al benessere del futuro adulto e della società. L’educazione per me è certamente un tirar fuori. Ma se ci fermiamo a questo rischiamo di vedere il docente come un semplice facilitatore rispetto a quello che il bambino ha già dentro e io non ci credo a questa visione limitante dell’educazione. L’educazione è molto di più di un tirar fuori”.

Che cos’è allora?

“E’ un mettere dentro. Mettere dentro modelli di comportamento, regole, emotività, empatia, sentimento e modalità di gestione dell’affettività. Si basa infatti su due processi che la psicologia spiega bene e questi processi sono l’identificazione e l’introiezione. L’identificazione consiste nell’assimilazione dei modelli di comportamento o delle reazioni emotive che abbiamo visto agire agli adulti significativi per noi quando eravamo bambini. Basta pensare a come ci arrabbiamo in macchina quando qualcuno ci taglia la strada. E’ possibile, se torniamo alla nostra infanzia, che in quel momento riproduciamo una modalità di reazione che caratterizzava l’espressione della rabbia di uno degli adulti significativi per noi. L’introiezione è invece quel processo psicologico per il quale noi come esseri umani e soprattutto da bambini mettiamo dentro di noi la voce e le parole che ci sono state dette dagli adulti per noi significativi. Se queste parole, per esempio difronte ad un nostro errore, sono state rassicuranti e incoraggianti, non svalutanti, le conserveremo dentro di noi e diventeranno il nostro modo, rassicurante, di reagire di fronte all’errore o al fallimento. E questa introiezione, questo mettere dentro di noi le modalità svalutanti o rassicuranti dell’adulto, avviene anche per la generale gestione dell’emotività. Se sono un bambino o un adolescente in classe e sono in ansia, dovrò trovare di fronte a me un adulto che sappia come stare – non come curare, ma come stare – con la mia emotività senza svalutarla. È così che si impara a prendere consapevolezza e a gestire la propria affettività. Vedendo un altro che lo fa con noi, che ci fa vedere come si gestisce la nostra”.

Una grande responsabilità per il docente

“Di solito, durante la formazione ai docenti, per mostrare loro l’esistenza di questo processo nell’educazione chiedo loro di pensare a che cosa si dicono quando sbagliano in qualche cosa di importante per loro o quando falliscono in qualcosa. Si svalutano, dicendosi che sbagliano sempre? Oppure hanno verso sé stessi uno sguardo che dice loro che ci sarà un altro momento in cui potranno fare meglio o in un modo diverso? Questo dialogo interno è rappresentato dalle voci e dai messaggi che hanno introiettato, cioè messo dentro di loro, a seguito delle esperienze di errore e di fallimento quando erano in età infantile o adolescenziale. Quindi il modello dell’adulto di riferimento, e in questo caso l’insegnante, rappresenta una grande responsabilità, ma anche una grande possibilità per l’educazione. Se vogliamo parlare di educazione a scuola e di benessere emotivo è però necessario – e sottolineo necessario – formare i docenti con gli strumenti relazionali ed emotivi della psicologia. Mi occupo da anni di formazione emotiva e comportamentale per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado e la domanda che sento farmi di più a fine corso è: come mai non si fanno corsi obbligatori su questo? Come mai non se ne fanno già ai tempi dell’università? Trovo questa domanda appropriata perché nella scuola di oggi le pur utilissime teorie pedagogiche e le metodologie didattiche offerte dai corsi di specializzazione universitari non bastano più. Non basta più dire a un docente solo che dev’essere accogliente e nello stesso tempo capace di dare un limite, non basta più dargli in dotazione delle metodologie didattiche innovative”

Che cosa serve allora?

“Serve che il docente sappia come stare con la rabbia, con l’ansia, con la tristezza, con la noia, con la gioia dell’alunno. Insisto: ho detto che sappia stare non che sappia curare. Saper stare con l’emotività dell’altro e saper gestire la propria emotività come docente significa contribuire alla strutturazione interna dell’alunno di un modello di gestione delle proprie emozioni. Se non si formano i docenti su questi aspetti e tutto è affidato alla loro immensa buona volontà e alla loro esperienza è inutile parlare di benessere emotivo a scuola, è inutile parlare di competenze trasversali che invece sono il cuore dell’educazione ma sulle quali non si può agire in modo efficace senza un’adeguata formazione del docente. Come mai si chiede al docente di valutare le competenze trasversali dello studente se il docente non è stato selezionato sulla base delle sue capacità emotive e relazionali? Non si educa all’emotività conoscendo la teoria. L’educazione all’emotività passa attraverso la capacità del docente di stare con l’emotività, di gestire la propria e di non svalutare l’espressione emotiva dell’alunno. E ci vuole poco a svalutare l’espressione emotiva di un alunno. Basta deriderlo o sminuire un pianto o la manifestazione dell’ansia, o anche solo non intervenire quando difronte alla manifestazione dell’ansia o della tristezza di un alunno, altri ridono, fanno altro o giudicano”.

Ma i genitori spesso si chiedono: a chi ho affidato il figlio? A un educatore o a un’altra figura?

“I genitori hanno diritto di pensare di avere affidato un figlio a un educatore, perché il Ministero dell’Istruzione chiede al docente di educare all’autocontrollo, alla gestione della relazione e della collaborazione, all’esternazione adeguata dei propri bisogni. Sono richiese molto grandi, bellissime, ma sui cui sempre di più è nessario formare i docenti”.

A questo punto non si può non toccare il punto dolente della formazione

“Una formazione non solo pedagogica ma anche che attinga strumenti alla psicologia. Mi riferisco a strumenti che ho evidenziato nel mio libro Insegnare senza farsi male e che sono strumenti cognitivi, emotivi, reazionali e di consapevolezza. Sono strumenti psicologici che devono essere messi a disposizione dei docenti nel corso della loro formazione. Dico questo avendo molto chiara la differenza tra educare e curare. Mettere a disposizione di un docente questi strumenti della psicologia non significa attribuirgli un ruolo diverso dall’educare ma significa dotarlo di competenze emotive e relazionali necessarie per non solo favorire l’approfondimento e creare un buon clima in classe ma anche per favorire il benesseere emotivo e ridurre il rischio Burnout sia per i docenti, sia per gli studenti. Non dimenticando che l’apprendimento migliora dove c’è una buona relazione e un modello rassicurante con cui identificarsi”.

Che cosa evidenziano agli educatori, alla scuola, e alla società i recenti, non edificanti casi di cronaca che arrivano dalle aule scolastiche?

“I recenti casi di cronaca evidenziano agiti aggressivi da parte di studenti e di docenti che testimoniano la necessità di rendere la scuola uno dei luoghi fondamentali in cui gli esseri umani possano nominare la propria emotività, perché se non diamo un nome alle nostre emozioni come può essere per esempio la rabbia sarà molto più probabile che si trasformino in agiti”. Nel caso specifico è noia. Però i docenti possono aiutare gli studenti a nominare la loro emotività affinché non debbano agirla, questa noia. Questo vale per la noia che spesso gli alunni ci fanno vedere in classe ma che non nominano, per la rabbia, che può diventrare un’aggressione fisica o anche per la tristezza: che se non nominata e non condivisa può diventare anche ritiro sociale o autolesionismo”.

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