Come reclutare e formare insegnanti, “aumentare salari e competenze”. Studenti? “50 anni fa studiavano il doppio degli attuali”. INTERVISTA a Valerio Ricciardelli

WhatsApp
Telegram

“Il reclutamento dei docenti non è la formazione iniziale. Quest’ultima va considerata più come un’attività per facilitare l’inserimento di un docente in un nuovo contesto lavorativo che un’attività per arricchire il profilo di ruolo dell’insegnante”. Secondo lo studioso Valerio Ricciardelli, profondo conoscitore dei sistemi scolastici e formativi “la confusione che muove attorno ad un argomento così importante, come quello della formazione degli insegnanti, ha origine nella non rappresentazione di quale istituzione organizzativa di servizio sia la scuola e di quali processi organizzativi si debba occupare la scuola, riconducendo il mestiere dell’insegnante ad insegnare e quindi ad erogare dei contenuti afferenti alle discipline oggetto dell’insegnamento. Manca una grammatica dell’organizzazione applicata alla scuola.

Non è un caso che quando si parla di scuola, di istruzione, di formazione nel gergo anglosassone, quindi con il linguaggio di sistemi scolastici evoluti, il termine più ricorrente che viene usato è learning, quindi apprendimento, e non teaching, che significa invece insegnamento. I tradizionali laboratori tecnico-scientifici delle scuole dei paesi evoluti, e non solo, sono chiamati learning environments e non ambienti di insegnamento. Le strutture laboratoriali più complesse, nelle scuole tecniche, sono chiamate learning factory”. Ricciardelli fa delle considerazioni pure sulla questione degli stipendi bassi, che secondo alcuni sarebbero la causa della demotivazione dei nuovi lavoratori, appena usciti dalla scuola, e che contestano spesso l’inadeguatezza dei livelli salariali.

Per Ricciardelli anche su questo fronte si deve registrare “un errore concettuale importantissimo”. È vero, spiega, “che ci sono dei settori e delle aziende con delle anomalie salariali ma è una percentuale abbastanza bassa del problema. Inoltre, il livello salariale si autoregola in base alla domanda e all’offerta di competenze; quindi, si fonda sulla legge di mercato ed è palese che di fronte a competenze scarse, queste non potranno essere retribuite con salari elevati perché le competenze scarse producono performances scarse. E siccome le aziende pagano le performances è evidente che di fronte a delle performances scarse si può pagare il salario coerente con il risultato che si produce. Allora la soluzione al problema non è aumentare i salari ma innalzare il livello delle competenze, incrementare l’employability dei giovani. Un giovane con più competenza ha un grado di occupabilità superiore. È evidente che per implementare le employability serve una un’education for employability, cioè un sistema scolastico finalizzato alla employability. Ma questa riflessione in Italia è sempre stata molto carente, come peraltro dico da tempo”.

Quanto agli studenti, occorrerebbe secondo lo studioso raddoppiare il tempo di studio individuale degli studenti: “se uno studente studiasse il doppio a casa o si applicasse al doppio a scuola – o magari entrambe le cose – allora le performances cambierebbero radicalmente. Il tempo di studio di uno studente di 50 anni fa era almeno il doppio del tempo di studio degli studenti di oggi. Se vuoi diventare un buon giocatore di calcio ti devi allenare con frequenza e intensità, non si capisce perché se vuoi acquisire le competenze tu non debba studiare, con altrettanta frequenza e intensità. Non puoi pensare che il problema siano le politiche salariali basse delle aziende”. Quanto ai professori, “il mestiere dell’insegnante è il più bello in assoluto se fosse svolto come si dovrebbe. Tuttavia, la colpa non è degli insegnanti ma dell’organizzazione scolastica complessiva, che richiederebbe una coerente e coraggiosa riforma della scuola in linea con i tempi e con il bisogno di sviluppo del nostro Paese, e non solo la manutenzione dell’esistente”.

Dottor Valerio Ricciardelli, il tema della formazione e della qualità degli insegnanti è uno di quelli che dovrebbe far tremare le vene ai polsi a chi si occupa di scuola.

“Il tema della formazione degli insegnanti è un tema enorme. Ma non c’è la visione d’insieme, si procede con la tecnica della manutenzione dell’esistente e non con un coraggioso e radicale ripensamento del profilo di ruolo dell’insegnante per la scuola di cui ha bisogno il nostro Paese. È vero che un docente in modo autonomo può organizzarsi di conseguenza, ma quale è il profilo di ruolo che deve avere, e quindi le competenze che deve possedere e i risultati che deve raggiungere? Puoi avere tutte le competenze per esercitare bene la professione ma non è sufficiente perché le competenze devono poter essere applicate nel contesto giusto. Puoi anche essere un premio Nobel della disciplina che devi insegnare, ma se non puoi mettere in atto le tue competenze e le tue conoscenze non puoi esercitare il ruolo di buon docente. Avere bene un bravo conoscitore della materia non significa per forza avere un bravo docente.

Conoscere la materia che si insegna potrebbe non essere una condizione sufficiente per generare le performances di apprendimento degli allievi. E poi siamo sicuri che tutti gli insegnanti conoscono e padroneggiano bene la disciplina che devono insegnare? Innanzitutto parliamo genericamente di insegnanti, quando costoro dovrebbero essere suddivisi in diverse categorie, più omogenee rispetto al tipo di insegnamento di cui si devono occupare. L’insegnamento delle materie tecniche è un mestiere completamente diverso dall’insegnamento delle materie letterarie. Ecco perché dico che l’argomento della formazione degli insegnanti è importante. Ma prima di tutto è importante definire e distinguere i diversi profili di ruolo degli insegnanti, per tipo di scuola e per disciplina.

Poi che ci siano anche dei denominatori comuni in tutti i profili è vero, ma è ancora più importante la parte specialistica. Anche al mondo della scuola si possono applicare le tecniche dell’approccio clinico ai sistemi organizzativi. Pure nella sanità c’è bisogno della formazione e aggiornamento del personale medico, ma non c’è un unico profilo di ruolo; ci sono gli specialisti. Un conto è formare e aggiornare un ortopedico, un conto è formare e aggiornare un cardiochirurgo, un conto è formare e aggiornare un medico di medicina generale. Mestieri completamente diversi, basta guardare la lista delle specializzazioni sanitarie.

Così è per gli insegnanti: di fatto dovremmo avere una lista di profili professionali diversi, e ognuno di questi, al di là del denominatore comune di istruire, formare, far apprendere dei contenuti a degli allievi, esercita un mestiere che non è uguale per tutti , ma che si caratterizza, almeno, per tipo di scuola e di disciplina, spesso con forti varianti. Dai commenti e dagli interventi che mi capita di leggere in rete sui temi della scuola e della formazione e aggiornamento degli insegnanti, si capisce che è un argomento che ha bisogno di molte chiarezze. Prevalentemente sono osservazioni provenienti solo dall’interno del mondo scolastico, dove ognuno guarda l’argomento dal proprio vissuto. Sarebbe interessante disporre anche delle osservazioni provenienti dall’esterno del mondo scolastico”.

Lei ribadisce spesso che occorra sottolineare la differenza tra reclutamento e formazione iniziale.

“Sì, è una discussione che ho letto di recente sulla rivista. E devo dire che se c’è bisogno di spiegare questa differenza allora occorre fare chiarezza su molte cose, con alcune altre considerazioni”

La prima

“Vede, noi parliamo sempre di insegnamento e non parliamo mai di apprendimento, che è il punto focale di tutte le cose. E allora mi viene di usare delle provocazioni: ma la scuola è solo un sistema di erogazione di contenuti? No, non è così. Se fosse così varrebbe l’equazione che per essere un buon insegnante basterebbe conoscere la materia. Un conto è conoscere la matematica, un altro conto è insegnarla a una classe che ha determinate caratteristiche e un altro conto ancora è fare apprendere la matematica.

E allora lo scopo ultimo della scuola non è trasferire dei contenuti ai discenti, che magari non li recepiscono, ma fare apprendere ai discenti dei saperi, che è completamente diverso, e prova ne è che nel linguaggio anglosassone nei sistemi evoluti, ma non solo in quelli, la terminologia più ricorrente è learning. Se uno va a leggere i manuali sulla formazione scolastica si trovano un sacco di dizioni legate al termine learning. Non si parla di teaching

E questo a che cosa ci porta?

“Questo significa che, là, c’è un’organizzazione scolastica centrata sullo studente e non sul docente. E l’organizzazione scolastica student centered è un’organizzazione scolastica che deve gestire prevalentemente i processi di apprendimento dei discenti, che sono ben altra cosa rispetto ai processi di insegnamento e richiedono ben altre competenze oltre le conoscenze delle discipline che si vogliono insegnare.

Queste sono le considerazioni fondamentali per una politica formativa degli insegnanti. Leggendo un po’ le varie considerazioni che si fanno sul tema della formazione degli insegnanti, mi sono accorto che il tema, talvolta, è proposto non tanto per discutere questo argomento, ma per canalizzare, magari, delle proposte formative dell’università che vuol intervenire nella formazione dei docenti delle scuole superiori. Si parla dell’argomento, magari attraverso un convegno, con l’obiettivo di presentare una offerta di soluzione.

Sembra quindi che l’obiettivo sia questo: c’è un problema e io come università ho la soluzione, perché l’università è la detentrice delle competenze per formare l’insegnante. Allora qui si apre anche un ragionamento che investe i distinguo tra “formazione iniziale” e “reclutamento dei docenti”, nel contesto di una formazione iniziale chiamata alcune volte di “pre-servizio”, dove una figura esperta, cioè un docente, dovrebbe accompagnare un insegnante neofita ad inserirsi nella istituzione scolastica e in particolar modo nella classe in cui poi dovrà erogare la sua prestazione.

Già chiamare formazione di pre-servizio una normale attività di inserimento lavorativo mi sembra un po’ eccessivo e in ogni caso questa formazione, semmai, dovrebbe essere erogata alla “figura esperta”, essendo quest’ultima la responsabile del buon inserimento lavorativo del nuovo insegnante. Queste discussioni mi fanno dedurre che il tema della formazione del personale docente è ancora uno degli argomenti non affrontato dovutamente nel nostro ordinamento scolastico, e dai commenti che circolano anche nel web, c’è non poca confusione che traspare anche dalla necessità di specificare che il “reclutamento dei docenti non è la formazione iniziale”.

Concentrarsi sulla formazione iniziale pre-servizio, cosa importante, significa creare le condizioni per il miglior inserimento lavorativo di un docente. Ma questo non riguarda l’attività di formazione di un docente ma appartiene all’attività di inserimento dell’insegnante. È più un’attività che dovrebbe essere rivolta a chi inserisce un insegnante e non a chi è inserito. Chi è inserito dovrebbe essere stato sottoposto a una ben diversa attività di formazione, e costantemente aggiornato con una ben diversa attività di formazione, quella di come esercitare il mestiere del docente”.

Ci faccia capire meglio

“Quando uno entra in un ambiente lavorativo organizzato, per esempio nelle aziende, ci sono delle persone che si occupano dell’inserimento, ma il processo di inserimento non ha nulla a che vedere con la formazione della persona, che è tutt’altra cosa e che dovrebbe già essere in grado di esercitare il mestiere per cui viene inserita.

Così la formazione dell’insegnante ha l’obiettivo di costruire il profilo di ruolo del buon insegnante, per la tipologia di scuola e di disciplina che deve insegnare e quindi di costruire tutte le competenze necessarie che deve avere un buon insegnante, di quella categoria, per potere operare all’interno dei processi lavorativi della scuola dove andrà a lavorare. E allora questa riflessione apre delle domande: quali sono i processi lavorativi dentro i quali deve lavorare un insegnante? Non sono gli stessi per tutte le scuole.

E anche laddove fossero gli stessi, parte delle attività sono diverse da scuola a scuola. Se il mestiere dell’insegnante è solo quello di erogare dei contenuti il processo lavorativo principale è l’erogazione dei contenuti. La domanda successiva è: l’insegnante deve solo occuparsi dell’erogazione dei contenuti?”

Qual è la sua risposta?

“No, non è per niente così. Allora c’è un’ulteriore considerazione da fare: il mestiere dell’insegnante deve essere definito e sviluppato in funzione di quelli che sono i processi scolastici su cui si deve operare nella scuola, che sono diversi da scuola e scuola. E allora qui apro delle ulteriori riflessioni ritornando al concetto di learning e facendo un esempio molto attuale: pensiamo al learning by doing, che è il concetto di apprendimento che sta alla base dei tirocini pratici, di quell’attività formativa che solitamente non è fatta in un’aula scolastica ma in un ambiente lavorativo, o simil lavorativo.

Qui siamo in una situazione paradossale. Infatti, alcuni nostri politici hanno proposto che le attività di tirocinio pratico siano remunerate e qui c’è un errore concettuale forte che consiste nel fatto che nel nostro paese queste attività non sono mai state viste come delle attività formative, proprio perché nell’immaginario comune, sono considerate attività formative solo quelle di insegnamento. Non sono considerate le diverse tipologie di learning ma solo quello che si fanno in classe, in aula.

In altri Paesi non è così. Si pensi al sistema duale tedesco, dove una buona parte dell’attività formativa avviene in ambienti lavorativi ma lì si apprende e se si apprende non c’è bisogno che si debba remunerare il discente: sarebbe oltretutto altamente diseducativo. Per altri versi, noi abbiamo un tasso di abbandono scolastico elevatissimo, una elevatissima percentuale di NEET, cioè di giovani che non studiano, non hanno un lavoro e non sono impegnati in percorsi formativi e una situazione di performance scolastica non eccellente. Siamo quindi in una situazione di scarsa qualità dei risultati, che significa alta presenza di errori di altra natura.

Allora, in un contesto di questo genere, servirebbero delle strategie di learning opportunamente centrate sulle caratteristiche di questo fenomeno, ma anche qui si usa la stessa ricetta per tutti: la lezione fatta sulla base dell’erogazione dei contenuti. Quanto alla proposta di retribuire gli stages, qualche esperto anche di recente ha anche aggiunto che gli stipendi in Italia, soprattutto per i giovani e i giovani usciti dalla scuola, sono molto bassi e quindi per far fronte al problema occorrerebbe alzare gli stipendi”.

E non è così?

“Anche qui, non solo c’è un errore concettuale importantissimo, ma si fanno spesso dei ragionamenti parziali sostenendo che la produttività è significativamente aumentata rispetto gli stipendi negli ultimi 15 anni, ma non i salari. Ma il parametro da tenere in considerazione non è la produttività, ma il cosiddetto costo del lavoro per unità di prodotto, che invece è aumentato terribilmente, mentre in altri paesi europei è diminuito di parecchio, e la competitività e i salari dipendono fortemente da questo parametro. Poi è vero che ci sono dei settori e delle aziende con delle anomalie salariali ma è una percentuale bassa del problema.

Inoltre, il livello salariale si autoregola in base alla domanda e all’offerta di competenze; quindi, si fonda sulla legge di mercato ed è palese che di fronte a competenze scarse, queste non potranno essere retribuite con salari elevati perché le competenze scarse producono performances scarse. E siccome le aziende pagano le performances è evidente che di fronte a delle performances scarse si può pagare il salario coerente con il risultato che si produce. Allora la soluzione al problema non é aumentare i salari ma innalzare il livello delle competenze, incrementare l’employability dei giovani.

Un giovane con più competenza ha un grado di occupabilità superiore. E’ evidente che per implementare l’employability serve una un’education for employability, cioè un sistema scolastico finalizzato all’employability. Ma questa riflessione in Italia è sempre stata molto carente. Non si è mai parlato di Education for employability, cosa che invece è ricorrente in tutti i paesi, anche in quelli in via di sviluppo. Io ho fatto parte dieci anni fa di una istituzione della Banca mondiale che si doveva occupare delle politiche dell’occupabilità per alcuni paesi del Maghreb. Mi ricordo che l’obiettivo che avevano era quello di abbassare il tasso di disoccupazione giovanile dal 30 al 20 per cento quando in Italia era superiore al 30 per cento e non c’era nessuna politica orientata su questo problema.

Tutto questo poi è paradossale, perché nel nostro Paese ci sarebbe una offerta importante di posti di lavoro nell’ambito delle professioni tecniche, e anche ben remunerate e comunque con possibilità di buone carriere, ma non c’è l’offerta, non ci sono i tecnici, mettendo in serie difficoltà le nostre imprese. E non ci sono i tecnici perché non si conosce l’importanza del nostro settore manifatturiero che è al secondo posto in Europa dopo la Germania. Prossimamente uscirà un interessante libro, scritto da tre grandi esperti di consulenza e formazione aziendale in ambito industriale, che io chiamo grammatica di base e avanzata per spiegare come funzionano le nostre aziende industriali, quali sono i loro processi, quali sono i fattori della competitività, quali sono i profili professionali che vi operano e le competenze richieste. Insomma, un manuale completo, rivolto al mondo delle imprese, ma di grande utilizzo anche per il settore dell’education e in particolar modo della technical education.”

Lei cita il caso del recente e imbarazzante concorso per diventare magistrati come paradigma dell’errata correlazione tra formazione e stipendi

“Certo, è un caso paradigmatico che ci deve far riflettere. Le notizie di stampa riportavano che si trattava di assolvere al bisogno di nuovi magistrati della nostra magistratura, che come si sa, è sottorganico ed è la ragione per cui era stato indetto lo scorso anno un concorso, con prova scritta e orale, per assumere 310 magistrati. Al concorso si sono presentati ben 3797 candidati, quindi un campione significativo dei nostri laureati in legge, ma solo il 5,7 per cento è stato giudicato idoneo, e questo è il primo campanello di allarme. Il giudizio che è stato espresso sui partecipanti non idonei da parte della commissione giudicatrice è terribile. I temi redatti dai concorrenti sono stati giudicati scritti in un italiano primitivo, senza alcuna logica argomentativa, quasi non valutabili.

E tanti altri privi dei requisiti minimi, pieni di refusi ed errori concettuali e di diritto, di cui alcune centinaia di temi sono stati dichiarati francamente imbarazzanti. Questi sono i giudizi degli autorevoli commissari che hanno corretto gli scritti, e non è poco. Il “disastro” del concorso ha confermato altresì una tendenza decisamente decrescente della percentuale degli idonei: le percentuali precedenti erano almeno superiori al 10 per cento, oggi siamo al 5 per cento.

Quindi siamo su una curva di declino. Chi stava correggendo gli elaborati disse anche: non possiamo scendere nell’aneddotica perché la selezione è ancora in corso, ma siamo colpiti nell’osservare così poca confidenza con il ragionamento giuridico e tanta distanza dagli standard minimi di elaborazione e scrittura. Viene da chiedersi come sia possibile, a questi livelli. Ed è la domanda che si fanno in molti: come sia possibile che il 95 per cento dei laureati, che partecipa ad un concorso pubblico, dove devono scrivere e argomentare di temi coerenti con la loro formazione e quindi con la loro laurea, producano un elaborato al di sotto degli standard minimi di elaborazione e scrittura e senza nessuna logica argomentativa? E costoro pensavano di essere idonei per fare il magistrato?

C’è da riflettere e da preoccuparsi perché il fenomeno potrebbe non essere un caso isolato.

Resta da chiedersi se il problema resta confinato tra i laureati in giurisprudenza e colpisce solo i laureati in legge…

“Temo colpisca tutti gli indirizzi. Ma da qui scaturiscono altre domande. Intanto: dove andranno a lavorare i 3600 bocciati per le loro così gravi lacune? Probabilmente ce li troveremo da qualche parte, o nell’esercizio della professione forense, o in posizioni pseudo manageriali da qualche parte o anche come insegnanti delle nostre scuole, magari recriminando i bassi salari che offre il mercato e intercedendo una politica per l’innalzamento degli stipendi.

Una successiva domanda, un po’ più provocatoria, riguarda le università. Siccome l’istituzione universitaria è considerata il top del sapere e quindi colei che può agire con competenze anche per fare la formazione del personale docente, non sarebbe il caso che desse priorità ad una seria analisi interna, finalizzata a comprendere le cause di tale debacle del concorso in magistratura, che molto probabilmente non sarebbe un caso isolato? E, qualora fossero scoperte le cause, non sarebbe il caso che l’università, almeno gli istituti performanti, aiutassero quelli meno performanti che producono laureati come i partecipanti al concorso citato?

Infatti, chi ci tutelerà da così tanta ignoranza? E ancora di più: cosa si può fare per prevenire nel futuro così tanta ignoranza? E insisto sull’esempio di prima: il 5 per cento ritenuto idoneo è entrato in magistratura, ma il 95 per cento con gravi lacune è alla ricerca di un posto di lavoro ed è costituito da coloro che dovranno incrociarsi con politiche salariali basse e allora, se il problema è di questa natura, il tema non è alzare i salari ma alzare le competenze”.

Gli stipendi bassi sono tuttavia un problema oggettivo

“Quasi sempre gli stipendi bassi, per chi esce dal mondo della scuola, ci sono là dove non ci sono le competenze. E’ sufficiente andare in Germania per verificare come funziona il mercato del lavoro dei giovani e ci si accorge che anche quelle imprese sono in sofferenza perché fanno fatica a trovare lavoratori in particolari settori come quello industriale, ma le politiche salariali sono politiche attrattive per i giovani bravi.

Prova ne è che tanti giovani italiani bravi vanno in Germania a lavorare e che la Germania ha da tempo ha favorito una specie di campagna acquisti di giovani talenti italiani e spagnoli: allora la politica scolastica e l’azione degli insegnanti deve essere finalizzata all’ottimizzazione delle competenze dei discenti e dunque all’ottimizzazione dell’employability degli studenti e anche qui vorrei fare quasi una provocazione: se noi volessimo fare una riforma della scuola efficace indirizzata all’ottimizzazione dell’employability degli studenti si potrebbe fare a costo zero”

E come?

“Semplicemente iniziando a raddoppiare il tempo di studio individuale degli studenti: se uno studente studiasse il doppio a casa o si applicasse al doppio a scuola – o magari entrambe le cose – allora le performances cambierebbero radicalmente, senza altre particolari aggiunte. L’editoria scolastica attuale è già più che sufficiente per sostenere questa sfida. Ma non solo, la quantità di teachware disponibile in rete è enorme, in tutti i formati e per tutti i gusti e mai abbiamo avuto a disposizione, gratuitamente una quantità con grande qualità, di materiale didattico per l’apprendimento individuale, per ogni tipologia di istituzione scolastica. È sufficiente usarlo. Sarebbe anche utile confrontare il tempo di studio di 50 anni fa con il tempo di studio degli studenti di oggi. Non ho dei dati statistici ma il tempo di studio di uno studente di 50 anni fa era almeno il doppio del tempo di studio degli studenti di oggi”.

Eppure, ci sono scuole dove ci si lamenta semmai del troppo carico di compiti e di ore da dedicare allo studio.

“Lei ha ragione, esistono anche queste, deve esserci la giusta misura. Sarebbe sufficiente far funzionare le cose in maniera normale: impegno, serietà, studio, sacrificio. Se la ricetta è questa significa che il sistema scolastico deve proporre e portare avanti una cultura di questo genere. E nei confronti dei ragazzi e nei confronti delle famiglie: o ci rendiamo conto che la scuola deve metterci in condizioni di acquisire i saperi necessari anche della vita lavorativa e questi saperi devono essere performanti, altrimenti i salari resteranno bassi. Allora occorre fare i giusti sacrifici e metterci il giusto impegno. Se vuoi diventare un buon giocatore di calcio ti devi allenare e ciò richiede sacrificio e fatica, non si capisce perché se vuoi acquisire le competenze tu non debba dedicare il giusto sacrificio e la giusta fatica. Non puoi pensare che il problema della tua mancanza di successo economico professionale siano solo le politiche salariali basse delle aziende”.

Lei vede un automatismo tra competenze e salari? Eppure, bisogna passare dalla contrattazione collettiva

“Ma no, quello andava bene in un determinato periodo storico, oggi non c’è bisogno nella maniera assoluta. Faccio un’osservazione. Hanno cambiato il nome del Ministero dell’Istruzione aggiungendo la parola merito. Non so se la decisione sia stata presa a caso oppure se dietro ci sia stata una riflessione. Su questa storia della nuova denominazione è nata una disputa. Al di là delle differenti posizioni c’è un fatto interessante, e cioè che il merito è una condizione necessaria per essere performanti nelle proprie prestazioni.

A questo proposito c’è una considerazione interessante nel libro di Roger Abravanel intitolato “Meritocrazia, 4 proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto”. Abravanel in questo volume fa un’analisi del problema e dice che la scarsa cultura del merito è la causa principale dell’impoverimento del nostro paese, ciò che ha fatto dell’Italia la società più ineguale del mondo occidentale.

Lo scriveva quindici anni fa. Allora, gira e rigira, la soluzione al nostro problema, che è quello di avere un paese che sappia crescere economicamente e socialmente e che sia in grado di competere con le economie del mondo, è che si deve reggere sulla cultura, sull’istruzione, sulle competenze, sul merito. E queste cose devono provenire dalla scuola: è la scuola che costruisce il futuro del paese e non ci può essere una politica dell’appiattimento e, di fronte all’appiattimento, il ricorso alla politica dell’aumento dei salari. Queste cose sono scritte anche in un bellissimo libro appena pubblicato di Piero Angela, dal titolo: Dieci cose che ho imparato.”.

Qual è la sua ricetta, a questo punto?

“La ricetta è: studio-studio-studio. E tutti gli attori, compresi i genitori degli allievi, devono operare per generare questa performance che, insisto, è studio-studio-studio, apprendere-apprendere-apprendere. Tutto il resto sono chiacchiere”.

Una ricetta che non può non passare dal ruolo e dall’azione quotidiana degli insegnanti

“Dentro questa strategia, che è abbastanza chiara e semplice, l’insegnante deve fare il suo mestiere: deve fare cioè in modo che tutte le attività che devono essere svolte siano le più efficaci per consentire agli allievi di apprendere i saperi necessari a costruire i loro progetti di vita. Quindi l’insegnante non deve fare solo l’erogatore di contenuti e poco altro. Gli insegnanti delle materie tecniche avrebbero addirittura un plus lavoro da fare. C’è ad esempio il tema dell’orientamento che è il tema più importante dell’organizzazione scolastica. Orientare è sapere guidare il discente nelle sue scelte”.

Una cosa da poco…

“Per saper accompagnare il discente, occorre aiutarlo a conoscere sé stesso, a saper conoscere il contesto esterno, il mondo del lavoro e non solo, per aiutarlo a fare responsabilmente le scelte giuste. L’orientamento non è un’attività che si fa solo invitando qualcuno a scuola per raccontare come sono fatte le imprese e il mondo del lavoro: quello dell’orientatore è un mestiere importantissimo e anche complesso: mi fanno ridere quelle scuole che hanno magari la figura dello psicologo ma che non si pongono il problema di avere la figura dell’orientatore ad alta professionalità, non solo in uscita ma anche all’interno. L’orientamento è un aspetto assolutamente sottovalutato, eppure è l’attività cardine per accompagnare la crescita di una persona.

La scuola dovrebbe avere due centri permanenti di competenze. Uno in mano all’educatore, quindi a una persona esperta di strategie educative, perché uno dei problemi della nostra società è il deficit educativo. Ricordiamoci che il Papa, lo scorso anno, ha parlato addirittura di catastrofe educativa; certamente la responsabilità non può cadere solo sulla scuola, ma la scuola è l’istituzione che ha come missione anche l’educazione delle giovani generazioni.

Il secondo centro di competenze che dovrebbe avere la scuola è quello per l’orientamento. Poi è vero che non tutti gli insegnanti devono essere dei grandi esperti di orientamento e di strategie educative, ma se all’interno della scuola ci sono degli esperti di questi due processi fondamentali poi costoro possono fornire il supporto ai docenti per acquisire un minimo di queste competenze specialistiche che integrano le core competences del loro mestiere. Allora, se mettiamo assieme queste cose, ecco che il mestiere dell’insegnante diventa un mestiere olistico, uno dei mestieri più importanti e interessanti, il mestiere strategico per lo sviluppo del nostro paese, perché l’insegnante diventa a tutti gli effetti l’attore principale per la costruzione del futuro”.

E invece?

“Invece, se l’insegnante è ricondotto semplicemente all’erogazione dei contenuti delle discipline che deve insegnare, questo è gravemente limitativo, e talvolta con il rischio, soprattutto nelle discipline tecniche, che i contenuti giusti non siano conosciuti adeguatamente. Poi è vero che in Italia abbiamo avuto e abbiamo tanti insegnanti che per conto loro e con il fai da te e in autodidattica hanno comunque costruito una propria professione, talvolta anche carismatica, ma queste sono più delle eccezioni. Noi dobbiamo costruire un sistema: guai a quel paese che per crescere e per svilupparsi ha bisogno degli eroi.

Ecco allora perché la riflessione sul ruolo degli insegnanti e su quello della loro formazione è uno dei temi più importanti della scuola e non sarebbe male che una rivista come Orizzonte Scuola facesse come da contenitore per socializzare l’idea dell’importanza del ruolo dell’insegnante staccato dallo stereotipo che abbiamo in mente: erogatore dei contenuti della disciplina. Magari, partendo dal basso, potrebbe nascere qualche cosa, in fin dei conti la scuola è la fabbrica del futuro e tutti dovremmo essere interessati a un buon futuro, soprattutto a quello delle giovani generazioni. Ma perché la rivista non si fa carico di diventare un punto di riferimento per riflessioni del genere, proposte, critiche, ragionamenti, confronti, benchmarking, anche con lo scopo di costruire una rete di persone esperte e appassionate di queste tematiche, con la tecnica della socializzazione delle idee?

Bisogna fare qualcosa, di certo non si può andare verso una soluzione opposta. La situazione è complessa e noi che facciamo? Ci arrendiamo? No, per quel poco che possiamo, diamo un contributo nella maniera più efficace. Lo scopo deve essere quello di creare una base di pensiero comune per iniziare ad attivare dei piccoli cambiamenti. Gli insegnanti sappiamo che spesso sono demotivati. Allora una delle strategie – posto che non possiamo aumentare gli stipendi – è dare un contributo per costruire un loro profilo di ruolo adeguato alle necessità e ai tempi. Il mestiere dell’insegnante è il più bello in assoluto se fosse svolto come si dovrebbe. Tuttavia, la colpa non è degli insegnanti ma dell’organizzazione scolastica che si muove al più sulla manutenzione dell’esistente.

E, ogni volta che si parla di scuola si dice: servono i soldi. Certo che servono, ma prima chiariamoci le idee su che cosa devono essere destinati i soldi. I nostri figli e nipoti sono in mano alla scuola. Spendere i soldi senza sapere e calcolare quale ritorno ci si deve aspettare, significa non avere nessuna idea del valore che può produrre una politica di education”.

Dottor Ricciardelli, quando si parla di questi temi quasi puntualmente si finisce in Finlandia…

“Anche, ma non solo. Conosco la scuola finlandese da quasi quarant’anni e nel 2005 portai ad Helsinki per la prima volta degli studenti italiani che parteciparono alla competizione, con altre trenta squadre provenienti da vari paesi del mondo, delle word skills olimpic nel settore della meccatronica; giunsero diciassettesimi. Fu l’unica volta che degli studenti italiani parteciparono alle olimpiadi delle professioni in questo settore così strategico per il nostro paese.

La Finlandia ha cinque milioni di abitanti, ma c’è una predisposizione alla cultura grande, là hanno la passione dello studio, non è come noi che si va a scuola svogliati. Una cosa interessantissima, a questo proposito, la scrisse Giuseppe De Rita nel 2011 in un libro intitolato La fine della borghesia intellettuale, uno dei punti di riferimento per iniziare a comprendere il grave deficit che abbiamo negli acceleratori di sviluppo del nostro Paese. Scrisse che il crollo culturale del nostro Paese ha origine dalla fine della borghesia intellettuale, dall’avvento del ceto medio e dal suo arricchimento.

Tornando alla Finlandia, De Rita indicava nel suo testo che il numero medio di libri letti in un anno per persona era di 11. In Italia questa media era 0,5, un rapporto di 1 a 20. Io ho amici e ex colleghi in Finlandia e penso che i finlandesi non siano delle eccezioni, ma hanno una cultura enorme, hanno una conoscenza della storia italiana che noi ce la sogniamo e poi hanno una conoscenza e una grande presenza nel continente africano e questo vuol dire che sono cittadini del mondo e vivono alcune esperienze a contatto con quelle civiltà, sono delle persone che si adeguano con una facilità enorme alle altre civiltà, sono in definitiva delle persone intelligenti.

La città di Espoo, con meno di trecentomila abitanti, sede delle più importanti aziende innovative e di centri di ricerca avanzati, è una delle città più attive e con le esperienze più significative tra l’istituzione delle Learning City mondiali appartenenti all’Unesco. Ho anche scoperto recentemente che La Zanichelli ha pubblicato una collana di testi di matematica e geometria per la scuola media, redatta da docenti finlandesi, e ciò mi ha incuriosito. Tutta la loro strategia è centrata sul learning

———————————————

Chi è Valerio Ricciardelli

Valerio Ricciardelli, oggi 68 anni, ha sempre avuto un occhio di interesse verso la scuola. A 17 anni si accorge che l’istruzione tecnica non funziona e i programmi “ce li facevamo noi perché avevamo capito che la scuola non era adeguata ai tempi”. Avevano un giovane docente, “aggiunge – che ci sosteneva in questa autogestione. E così abbiamo scritto il nuovo programma e le nuove dispense di elettronica, costruito sui dispositivi a semiconduttori, quando i libri di testo e i programmi ministeriali prevedevano ancora i vecchi dispositivi a valvole”.

Ma chi è Valerio Ricciardelli? Lo studioso si diploma perito elettronico nel 1973 presso l’Istituto Tecnico Feltrinelli di Milano. Si laurea in ingegneria elettronica, indirizzo sistemi automatici al Politecnico di Milano. Le prime esperienze lavorative sono nel campo della progettazione dei sistemi di controllo di tensione degli alternatori delle centrali termiche, quando l’Italia era ancora un leader mondiale nella costruzione delle centrali elettriche.

Nello stesso periodo, per nove anni, è anche docente di elettronica industriale presso l’Istituto tecnico salesiano serale di Sesto S. Giovanni, dove anche in quella occasione deve mediare tra i programmi ministeriali obsoleti e le impellenti esigenze imposte dall’evoluzione delle tecnologie. Contemporaneamente inizia la sua attività presso la società Festo, la filiale italiana, di un importante gruppo tedesco, leader mondiale nella componentistica per l’automazione industriale e nel campo della didattica per le professioni tecniche, nonché partner del governo tedesco per la costruzione del cosiddetto modello duale della formazione professionale. Successivamente diventa direttore generale e amministratore delegato di una nuova società del gruppo, la Festo CTE (Consulting-Training-Education) che comprende anche una delle più importanti scuole di Industrial management in Italia. Dirige una attività prevalentemente rivolta alla consulenza aziendale e alla formazione delle professioni tecniche delle aziende del settore manifatturiero, contribuendo alla creazione di una nuova cultura industriale a seguito degli importanti cambiamenti organizzativi indotti dalla globalizzazione.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha travasato l’esperienza raccolta dall’operare nei più diversificati settori industriali nelle prime iniziative di formazione applicata superiore (formazione post-diploma), anche promuovendo i primi progetti trasnazionali, introducendo i concetti di certificazione delle competenze secondo standard internazionali.

Ha terminato la sua attività professionale nella posizione di Vice President del gruppo internazionale, per il settore della Global Education, occupandosi prevalentemente della consulenza di grossi progetti internazionali, rivolti anche a governi di paesi in via di sviluppo, per la progettazione e realizzazione di sistemi TVET, intendendo con questo termine tutte le forme e livelli di istruzione e formazione che forniscono conoscenze e abilità relative alle occupazioni in vari settori della vita economica e sociale attraverso metodi di apprendimento formale e non formale in contesti di apprendimento sia in ambito scolastico che lavorativo.

Ha partecipato a varie iniziative di carattere internazionale, tra cui istituzioni afferenti alla Banca Mondiale, a Unesco, Fondazione Adenauer, come esperto di politiche di Education finalizzate all’Employability (E4E). Si è occupato anche di ROI on Education, lo strumento per misurare che gli investimenti nell’istruzione e formazione non siano debito cattivo. È stato relatore in diversi convegni internazionali e nazionali e in questi ultimi trattando prevalentemente l’argomento: una nuova formazione tecnica per il rilancio del Paese. È maestro del lavoro su nomina del Presidente della Repubblica Napolitano. Data, anche la conoscenza diretta dei piccoli paesi di montagna, a rischio chiusura delle scuole elementari, ha promosso e coordinato un convegno regionale in Lombardia dal titolo: Piccole Scuole per fare grande un Paese. È stato presidente di un consiglio di Istituto, e si è occupato spesso di iniziative di orientamento al lavoro.

L’esperienza e la competenza acquisita, derivante anche dall’organizzazione e gestione di sistemi complessi, racchiude una visione chiara su come l’istruzione e la formazione tecnica, nei suoi tre livelli: low, medium, high, possano essere per il nostro Paese una leva strategica per fare crescita economica e sociale immediata e sostenibile e prevenzione alla migrazione economica.

Per tale ragione, quella che lui chiama la Technical Education e in generale l’Education non può più essere vista in modo verticale, senza nessun legame con l’Economy e l’Employability.

Pertanto, secondo lui, “la visione si deve centrare sulle cosiddette tre E: Education- Economy-Employability, che significa riprogettare il sistema scolastico, a partire dall’istruzione tecnica, secondo un approccio sistemico, dove ogni scelta didattica o scolastica è coerente con il sistema economico globale e con gli effetti occupazionali.

WhatsApp
Telegram

Abilitazione all’insegnamento 30 CFU. Corsi Abilitanti online attivi! Università Dante Alighieri