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“Uno studente che suona il pianoforte non maltratterà un compagno, perché ha la percezione della bellezza”. INTERVISTA a Stefano Picciano

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“Uno studente che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza oppure il rispetto per i tesori della cultura difficilmente maltratterà le persone o le cose. Noi cerchiamo con dei progetti di insegnare delle competenze che in realtà sono già implicite nella nostra tradizione culturale. Difficilmente un ragazzino che suona, per esempio, il pianoforte maltratterà un compagno, poiché ha una percezione fondamentale della bellezza, che è una dimensione educativa essenziale della persona”.

Stefano Picciano è docente di Lettere presso l’Istituto Comprensivo 1 di Riccione. Ha 43 anni, è anche musicologo e ricercatore in Storia della musica, autore di vari libri, scrive sul quotidiano Il Foglio. Soprattutto, è animato da una grande passione per l’educazione: “Il tema della scuola e dell’educazione – ammette – mi ha sempre appassionato”. E in particolare quello della parola, come ci aveva rivelato in una precedente intervista sull’importanza del lessico. Ora ci soffermiamo con lui sui temi del bello e dell’utile.

Ma che cosa è davvero utile? Qual è il ruolo della cultura umanistica e dell’arte? A che cosa servono l’arte, la filosofia o il greco antico nell’era della tecnica e delle tecnologie? Quanto sarebbe importante e decisivo riscoprire il ruolo della bellezza nella scuola? “Si tratta di accompagnare i ragazzi – osserva Picciano – alla conoscenza della bellezza come esperienza disinteressata, non orientata ad alcuno scopo se non quello della maturazione del soggetto”. Se la scuola non rinnega la tradizione che ci precede, “trova in essa tutto ciò che le serve per educare i giovani. Una concezione di scuola troppo incentrata sulle abilità funzionali, invece, si espone al rischio di perdere di vista i suoi obiettivi più profondi. Nei grandi tesori dell’arte e della letteratura sono già contenuti gli elementi che riguardano la dimensione educativa”. “Si tratta fondamentalmente di dare tempo alla bellezza – prosegue il docente – incentrando l’attenzione dell’allievo sul presente – Age quod agis, dicevano i latini – sulla possibilità di vivere pienamente il rapporto con ciò che si ha davanti, che non è l’ennesima cosa da memorizzare e ripetere all’interrogazione, ma una cosa preziosa che mi viene donata per crescere”. Peraltro, insiste Picciano “sarebbe importante recuperare la capacità di soffermarci davanti alle cose. Spesso ci troviamo in affanno, perché tante sono le cose da fare e gli adempimenti da sbrigare, e ci dimentichiamo l’importanza di soffermarci sulle cose cioè, per usare un termine caro al filosofo Byung-Chul Han, di indugiare. Bisogna dare tempo e spazio a tutte quelle cose che – potremmo dire – si illuminano tanto più quanto più le osserviamo. Dobbiamo recuperare la capacità di stare, ritornare a un’osservazione disinteressata, riappropriarci della capacità di cogliere la densità della realtà che ci circonda”. E “il silenzio in questo senso ha un grandissimo valore: esso non è una regola che ci imponiamo in classe, ma è il contesto stesso della contemplazione, la condizione per un vero incontro con le cose”.

Professor Stefano Picciano, in buona sostanza pare di capire che l’idea sarebbe quella di tornare a chiederci quale sia il ruolo della dimensione estetica nell’educazione dei giovani…

“Si tratta di riscoprire la potenzialità educativa della bellezza. Vede, spesso la scuola incentra la propria azione su ciò che appare utile, su ciò che indirizza al mondo del lavoro. A me interessa sottolineare il fatto che la scuola non ha principalmente questo obiettivo, ma soprattutto quello di occuparsi della formazione del soggetto, della persona. In questo senso dovremmo tornare a domandarci: che cosa è utile davvero? E riscoprire che la dimensione estetica è ciò che più di ogni altra cosa concorre alla formazione integrale della persona. E se bastasse, per educare i giovani, tornare alla bellezza?”

Tema estetico, tema dimenticato?

“Sì, ma senza dubbio siamo sempre in tempo. Non dobbiamo secondo me cadere in una concezione utilitaristica del sapere. Spesso si considera utile ciò che ha una pratica spendibilità ma si trascura ciò che è finalizzato alla formazione della persona in sé. Dobbiamo accompagnare gli studenti a comprendere che il valore delle cose non sta appena nella loro strumentalità, che ancora più prezioso è ciò che educa l’uomo, ciò che favorisce la maturazione della personalità. C’è il rischio che la scuola della nostra epoca si incentri sulle competenze inerenti al mondo del lavoro lasciandosi però alle spalle secoli di cultura in cui si trova il fondamento per la formazione dell’uomo. Mi ha colpito una citazione della saggista ungherese Ágnes Heller che, a chi le domandava quali discipline avrebbe privilegiato nella scuola, rispose: ‘Prima di tutto solo cose inutili: greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita. Il bello è che così, all’età di diciotto anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre con il sapere utile si possono fare solo piccole cose’”.

A che cosa servono l’arte, la filosofia, il greco antico, la musica?

“Tante persone oggi si pongono questa domanda in modo superficiale, ipotizzando che sia meglio orientare i propri figli verso studi più spendibili nel mondo del lavoro. Però il compito della scuola non è appena quello di formare dei cittadini o dei lavoratori, ma innanzitutto quello di concorrere all’educazione della persona in quanto tale. Ogni disciplina – dalle lettere alla tecnologia, dalle materie scientifiche all’arte – può mettere in primo piano questa consapevolezza: l’orizzonte non dev’essere quello della strumentalità, ma quello della crescita della persona. Se mi soffermo ad osservare un dipinto… a cosa serve? Magari a niente, penseranno molti. E invece serve a formare il pensiero critico, la percezione estetica, la cultura, dunque la persona. Ogni tipo di formazione, nelle scuole di ogni ordine e grado, deve essere sempre supportata da una dimensione educativa. Ciò che oggi viene percepito da alcuni come inutile è invece spesso ciò che ha la più profonda utilità poiché costruisce la personalità, la struttura dell’io, del soggetto”.

Scusate se è poco…

“Eh già. È questo il compito della scuola che la tradizione ci ha consegnato. La domanda che bisogna porsi è: che cosa serve veramente alla persona? Per questo mi piace affermare che la scuola non deve occuparsi appena di ciò che i ragazzi faranno, ma innanzitutto di ciò che i ragazzi saranno”.

E invece si punta sempre più spesso alle competenze.

“Il rischio della scuola è quello di fornire un saper fare che, pur riempiendo l’animo dei giovani di competenze connesse alle esigenze del mondo produttivo, lascia insoddisfatti i loro veri e più profondi bisogni. E questa dimenticanza di ciò che riguarda più profondamente il soggetto sta alla base dei fenomeni che non di rado vediamo attorno a noi: la disaffezione allo studio, l’abbandono scolastico, persino il bullismo. Talvolta ai colloqui i genitori si chiedono perché dovrebbero avvicinare i figli a materie che considerano inutili – si pensi al declino del liceo classico – quando invece potrebbero orientarli verso competenze molto più utili al mondo del lavoro, che appaiono più pratiche e concrete. E intanto non vedono affatto che l’aspetto più pratico e concreto è proprio la formazione del soggetto, la persona in quanto tale, a prescindere dal mestiere che essa un domani svolgerà”.

Guardando dal suo osservatorio, che cosa manca nella scuola di oggi?

“Sono convinto che ciò che manca nella scuola è innanzitutto una rinnovata attenzione per la bellezza. La scuola dovrebbe incentrare la sua programmazione su una via pulchritudinis in cui la dimensione estetica sia riconosciuta come fattore fondamentale nella maturazione della persona. La bellezza dovrebbe tornare a porsi in primo piano, nella sua “magnifica inutilità”, per giungere poi ad evidenziarsi come la dimensione sommamente utile per l’uomo. Come ha scritto Dostoevskij, ‘l’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui’”.

Tutto ciò che serve è già nelle discipline?

“Se la scuola non rinnega la tradizione che ci precede, trova in essa tutto ciò che serve per educare i giovani”.

La tecnologia può andare di pari passo con la bellezza?

“Le nuove tecnologie possono favorire l’incontro con ciò che nell’educazione deve rimanere centrale. La scuola dovrebbe incentrare la propria attenzione non sulle strumentalità, ma sul patrimonio storico artistico della nostra tradizione, perseguendo in questo modo alcuni obiettivi fondamentali che andiamo invece a cercare attraverso progetti – sull’affettività, sul bullismo, sulle relazioni – talvolta di discutibile interesse. Il punto è che la bellezza è strettamente, inscindibilmente connessa alla bontà e alla verità. Questo legame è implicito fin dall’antichità: per i greci kalòs è sempre agathòs, ciò che è bello è anche buono, ciò che è buono è anche vero. Uno studente che maturi i fondamenti della percezione estetica, l’amore per la bellezza, oppure il rispetto per i tesori della cultura, difficilmente maltratterà le persone o le cose. Noi cerchiamo con dei progetti di insegnare delle competenze che in realtà sono già implicite nella nostra tradizione culturale. Difficilmente un ragazzino che suona, per esempio, il pianoforte maltratterà un compagno, poiché ha una percezione fondamentale della bellezza, che è una dimensione educativa essenziale della persona”.

In concreto l’ora di lezione come la facciamo?

“Una strada può essere quella che mi piace chiamare la pedagogia dell’istante”.

Un po’ impegnativo…

“Fondamentalmente si tratta di dare tempo alla bellezza, incentrando l’attenzione dell’allievo sul presente. È solo nell’istante che avviene il cambiamento, come un piccolo seme che si pone nell’animo del ragazzo e poi nel tempo crescerà. Sto davanti a un dipinto: a che cosa serve, prof, stare davanti a un quadro? Tu intanto stai qui, accettando pienamente di vivere questo istante. ‘Nell’incontro con l’arte – scriveva Hans Georg Gadamer – vediamo attuarsi un’esperienza che realmente modifica colui che la fa’”.

Entriamo nel concreto con degli esempi…

“Leggere e rileggere una poesia, facendo sì che la sua analisi non sia lo scopo ma il mezzo per farne esperienza. Oppure: ritornare a distanza di tempo sulle pagine più preziose, ascoltare più volte la stessa musica e scoprire che ogni volta è più bella; indugiare davanti a un’opera d’arte chiedendo poi agli studenti di che cosa si sono accorti. Insomma, soffermarsi davanti alle cose. Ancora: lasciare gli studenti davanti a un foglio bianco per condurli al dialogo interiore, dare tempo alla riflessione, al pensiero, alla ricerca della parola esatta; ascoltare il silenzio e scoprire che attraverso di esso non solo scopriamo la realtà che ci sta attorno, ma sperimentiamo la vertigine della nostra interiorità. La scuola deve insegnare a osservare, deve favorire la dimensione contemplativa. Dobbiamo dare spazio a tutte quelle cose che si illuminano tanto più quanto più le osserviamo. Nel momento in cui mi soffermo o decido di indugiare ecco che un paesaggio, un elemento della natura, un albero, un tramonto, il volto di una persona o qualsiasi altra realtà, quasi volesse corrispondere all’attenzione con cui viene osservata, inizia a svelarmi tutto di sé e d’un tratto mi accorgo di aspetti che prima non avevo notato. Quella che ho chiamato pedagogia dell’istante trova forse la sua espressione maggiore nell’aforisma di Simone Weil: ‘Più il pensiero è attento, più la realtà si riempie di essere’. Si tratta di scoprire quella che Mario Luzi chiama l’immensità dell’attimo. La pedagogia dell’istante è quella che ti insegna a cogliere la densità dell’attimo presente, è l’atteggiamento di chi ha capito che, come diceva Oscar Wilde, ‘il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile’. Se noi accendiamo in loro il desiderio delle cose belle abbiamo perseguito il nostro obiettivo: il cuore della missione educativa non è appena dare delle risposte, ma destare il desiderio della bellezza”.

E secondo lei la scuola è dotata di questi strumenti?

“La scuola non sono i muri, sono gli insegnanti. La cosa fondamentale quindi è che l’insegnante, per primo, sia disponibile a riscoprire nel presente ciò che sa o che pensava di sapere. L’insegnante non può essere un ripetitore di ciò che sa: l’insegnamento è la riscoperta di qualcosa che, mentre spiego, riscopro. In questo senso l’insegnante è il primo a imparare nuovamente ciò che spiega. Ed è necessario che l’ora di lezione abbia questa dimensione di cammino guidato, ma che si fa insieme. È importante recuperare questa umiltà, questa disponibilità ad essere io per primo stupito di fronte alle cose, altrimenti in loro non scatta niente. Ed è necessaria la lentezza”.

La lentezza in un mondo che corre?

“Certamente è importante soffermarci davanti alle cose: ‘L’anima si nutre solo ad un ritmo pacato’, scrive Pablo d’Ors. Il filosofo Byung-Chul Han ci conferma che ‘solo nell’indugiare contemplativo (…) le cose svelano la loro bellezza. Oggi la rapidità ha preso il posto della profondità, favorendo una fugacità, una superficialità, perché ‘l’accelerazione porta a un impoverimento semantico del mondo’, per cui – scrive ancora Han – ‘gli eventi si susseguono velocemente senza lasciare un’impressione profonda, senza diventare un’esperienza. (…) Le cose vengono soltanto fugacemente sfiorate’. È anche attraverso una calma capace di vincere la frenesia e la superficialità che garantiamo il permanere dell’esperienza, che nella scuola si traduce in apprendimenti significativi: quelli che, radicandosi nella rete cognitiva, la modificano, la ampliano, la arricchiscono in modo non meccanico – tutti sappiamo che gli apprendimenti meccanici possono servire per la verifica del giorno successivo, ma poi vengono subito dimenticati – ma reale. Bisogna portare gli studenti verso l’esperienza, condurli in nuovi spazi di respiro in cui non vi è innanzitutto il pensiero della verifica o della valutazione, ma il semplice desiderio di proporre un’esperienza e farne tesoro, custodirla. Questi spunti introducono l’importanza del silenzio, che – non mi stanco mai di ricordarlo innanzitutto a me stesso – non è una regola che ci imponiamo in classe, ma è il contesto stesso della contemplazione, la condizione per un vero incontro con le cose: il silenzio ammira, protegge, custodisce. È estremamente significativo che alcuni studiosi abbiano legato l’etimologia della parola silenzio a un termine antico che significa legare: il silenzio è ciò che lega, che permette un legame autentico con le cose, un rapporto con la realtà”.

E invece spesso ci si riduce a rincorrere i programmi.

“Spesso ci troviamo in affanno, ci salutiamo di fretta nei corridoi nel cambio d’ora. Sono tanti gli adempimenti e anche in classe tendiamo a dimenticarci dell’importanza di soffermarci sulle cose, di indugiare: davanti a una poesia, un dipinto, una musica. Il guardare, che per tanti ragazzi non è nemmeno un’attività, può invece diventare un avvenimento. È fondamentale mostrare ai nostri studenti che le cose non esistono principalmente per la loro servibilità ma prima di tutto nel loro semplice esistere. Ogni tanto dico alle mie classi che una determinata cosa è importante non perché è utile, ma perché esiste. Bisogna relativizzare il rapporto funzionale con le cose per scoprire la vertigine del rapporto contemplativo. Si tratta insomma di percepire l’emozione per la presenza delle cose, imparare ad essere davvero –come ha scritto Mario Luzi – presente in questo attimo del mondo. Occorre ritornare all’essere come fenomeno, cogliendo le cose nella loro profondità”.

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